Il Francesco Padre in uno scenario di quasi guerra

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È il 4 novembre 1994: cinque uomini, e un cucciolo di cane, a bordo del motopeschereccio Francesco Padre di Molfetta, stanno facendo una battuta di pesca nell’Adriatico Orien tale. Nella notte l’imbarcazione esplode e si inabissa. Nella stessa notte in quelle acque è in corso l’operazione Nato «Sharp Guard». Il 17 dicembre 1997 la Procura di Trani chiede l’archiviazione del fascicolo: il pm ipotizza una deflagrazione interna al peschereccio sospettato di tra sportare illegalmente materiale esplosivo. Nel 2001 i fa miliari delle vittime chiedono di riaprire il caso, istanza che viene respinta anche per il «mancato recupero com pleto del relitto». La settimana scorsa, infine, la Procura tranese ha riaperto l’inchiesta. E come primo atto chiederà la rimozione del segreto di Stato sui documenti militari.


di Nicolò Carmineo (www.lagazzettadelmezzogiorno.it/…)

Per fare luce sulla vicenda del peschereccio molfettese «Francesco Padre», colato a picco la notte del 4 novembre 1994 con a bordo il comandante Giovanni Pansini e il suo equipaggio, bisogna indagare lo scenario dell’Adriatico meridionale, la «guerra» che in quegli anni veniva combattuta a poche miglia dalle nostre coste e di cui pochi hanno consapevolezza, se non per le derive criminali sul nostro territorio. È poi necessario risponde re ad alcuni quesiti insoluti, gli stessi che da anni si ritrovano nelle istanze di riapertura del ca so promosse dai familiari delle vittime.

Ricordiamo che solo da una settimana la Procura di Tra ni ha ripreso ad indagare. Non si spiega perché, se non l’intero peschereccio, almeno i resti umani evidenziati nel video del ROV pubblicato dalla Gazzetta, non siano mai stati recuperati. E ciò non solo per realizzare una analisi medico legale a fini in vestigativi, ma per il dovere mo rale di restituire le spoglie ai parenti.
Esiste una perizia sul corpo dell’unico marittimo ritrovato Mario De Nicolo, ma nelle carte processuali non c’è neppure una parola su eventuali osservazioni delle ossa presenti nel video. Il cranio, per esempio, analizzato da alcuni esperti per la Gazzetta, mostra un’ampia lesione della porzione del volto di sinistra a livello dello zigomo e uno strano foro che potrebbe essere di proiettile, il femore risulta frat turato all’altezza «del terzo medio», e ciò è riferibile ad un «grande traumatismo», ciò agli occhi degli addetti ai lavori assume un significato ben preciso per determi nare le cause della morte.

I magistrati che chiusero il caso nel 1997 hanno seguito prevalentemente una pista, quella cioè che il natante trasportasse dell’esplosivo, ma hanno trascurato tutte le altre, pur plausibili in uno scenario di conflitto. In un rapporto dello Stato Maggiore della Marina a firma del Capo di Stato Maggiore ammiraglio Mariani datato 9 dicembre 1994 si legge una lista delle unità militari che operavano sotto il con trollo del comando Nato (Com navsouth) in Adriatico nelle ore in cui si è verificato l’incidente: HCMS Toronto (Canada), ITS Perseo (Italia), ITS Euro (Italia), HS Hydra (Grecia), SPS Baleares (Spagna – questa è la nave più vicina che intervenne per prima nella zona dell’affondamento), HNLMS De Ruyter (Olanda), HLMNS Van Brakel (Olanda), HMS Nottingham (Gran Breta gna), FS Anquetil (Francia), USS Yorktown (Stati Uniti) e ben tre sommergibili SPS Tra montana (Spagna), USS Rivers (Stati Uniti), HLMNS Walrus (Olanda).
Nel rapporto si tacciono le posizioni dei tre sommergibili, né si ha contezza sulle in formazioni che queste sofisticate unità avrebbero potuto dare con i loro rilevamenti. Neppure sono stati acquisiti i tracciati radar di eventuali velivoli militari (anche se il documento non ne segnala la presenza) o almeno di quello che alle ore 00.30 vide l’esplosione in mare.

Nello stesso rapporto si fa cenno poi che il 2 novembre il sommergibile Tramontana aveva segnalato la presenza di un motopesca dedito ad attività sospette, ma che le sue caratteri stiche non erano compatibili con quelle del «Francesco Padre». Una così intensa attività mi litare in passato aveva già portato a numerosi incidenti con la ma rineria pugliese. Lo stesso «Francesco Padre» (luglio 1993) aveva rischiato di affondare per aver preso nelle reti un sommergibile Nato, e il peschereccio «Modesto Senior» (novembre 94) era stato mitragliato per errore da un velivolo Nato, solo per citare alcuni episodi.

La documentazione sull’attività militare in quei giorni in Adria tico è di difficile accesso, ma in alcuni casi i magistrati non l’hanno neppure richiesta . Un tale dispiegamento di forze navali serviva a far rispettare l’embargo alla ex Jugoslavia, ma non solo perché in quel tratto di Adriatico passava ogni tipo di traffico, la droga proveniente dall’Asia e dalla Turchia, armi balcaniche a buon mercato, si garette di contrabbando, stimate in 561mila tonnellate l’anno. Tali quantità che, nel febbraio del 1994, spinsero le autorità di si curezza pugliesi a chiedere l’in tervento massiccio della Marina per bloccare i contrabbandieri e i trafficanti.

Ma in quel tratto di mare operava anche ciò che ri maneva della Marina jugoslava rimasta in mano ai serbo-montenegrini con base a Tivat nelle Bocche di Cattaro. Nei primi anni Novanta era stata protagonista di diverse battaglie navali contro le forze croate che utilizzavano anche veloci scafi da diporto opportunamente armati. Molte zone dell’Adriatico erano state minate da entrambi gli schieramenti, per queste operazioni la Marina serba (che tra l’altro disponeva di diversi sommergibili classe Heroj e Sava) utilizzava speciali minisommergibili R1 ed R2 detti «tascabili» per le loro ridotte di mensioni (4 metri), dotati di tubi lanciasiluri.

Nel 1994 l’attività operativa delle unità di Belgrado era limitata, ma si segnalano diversi episodi di scontro tra croati e serbi (soprattutto per il controllo dei traffici di armi) e tra questi e le forze Nato come nel caso di una petroliera che cercava di violare l’embargo. E non mancano casi di mitragliamento nei confronti di alcuni pescherecci da parte di unità serbo-montenegrine che nel giugno 1993 causano proprio alla marineria molfettese una vittima, Antonio Gigante ucciso a raffiche di mitra. La notte dell’incidente, nella relazione dello Stato Maggiore si dice che non vi erano altre unità in zona, ma chi ci assicura che non vi fosse uno scontro, coperto da segreto militare, e il peschereccio molfettese ne sia rimasto vittima? Per trovarne le tracce biso gna recuperare il relitto, rifare le perizie sulla tipologia di esplo sivo che causò l’affondamento. Anche su questo punto non c’è chia rezza, le perizie sul la natura dell’esplosivo trovato nei frammenti del peschereccio non sono univoche. In molte carte processuali si riferisce sempre che gli esplosivi fossero di tipo civile, (gelatina quella usata nelle cave), ma in realtà due esperti in chi mica degli esplosivi (Massari, Vadalà) indicano la presenza di esplosivo di tipo civile e militare (molti degli ordigni che venivano adoperati nella guerra nei Balcani erano costruiti artigianalmente con miscele di esplosivi).

Le perizie contrastano anche su dove sia partita l’esplosione che secondo diversi periti tra cui il capitano Francesco Mastro pierro (del quale abbiamo riferito le osservazioni) è avvenuta all’esterno e non dall’interno del natante.

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