La mafia di mezzo: guida alla Capitale perduta

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di ROBERTO SAVIANO – www.repubblica.it

Mafia Capitale. Un racconto nuovo che riscrive completamente la narrazione del potere romano. Perché mafia a Roma? Com’è possibile? Come è potuto succedere che una banda di pluripregiudicati sia riuscita a decidere buona parte degli appalti del Comune di Roma per anni? Il grande romanzo di Mafia Capitale va affrontato e interpretato parola per parola, luogo per luogo.

Scalinata del Campidoglio. La simbologia, anche semplicemente relativa a salire o scendere una scalinata, fa capire dove c’è mafia. Chi non conosce il galateo del potere è destinato a non prendere potere. Antonio Lucarelli è il capo segreteria del sindaco Alemanno ai tempi in cui Salvatore Buzzi lo cerca. Buzzi ha bisogno che sia sbloccato un versamento di trecentromila euro alla sua cooperativa. Chiama, manda messaggi, richiama: niente. Allora il braccio economico dell’organizzazione informa il capo militare, Massimo Carminati. Carminati chiama Lucarelli e poi richiama Buzzi: “Vai alle tre, tranquillo” gli dice. Ma non è questa la vittoria. Er Cecato conosce benissimo le regole comportamentali del potere. “Scende e viene a parlare con te”. Scendere le scale del Campidoglio per andare a confermare che i soldi sono stati sbloccati: questo sì che è vincere. È il Comune, cioè in quel momento lo Stato, che va dall’uomo dell’organizzazione, e non quest’ultimo che sale le scale per chiedere. Dirà Buzzi, chiosando: “C’hanno paura de lui, c’hanno paura”. La paura fa scendere le scale al potere.

Bar Euclide. È questo il primo luogo dove si prendevano le decisioni organizzative più importanti. Affittare una casa è rischioso (vicini sospettosi, telecamere…): un bar invece è aperto, visibile. E la visibilità spesso è il miglior modo per nascondersi. Ma i Ros riescano a “cimiciarlo”. È sotto il gazebo del bar Euclide di piazza Vigna Stelluti che Carminati, parlando con il suo uomo Riccardo Brugia, teorizza il loro nuovo ruolo, molto di più del violento recupero crediti: “È nella strada che glielo devi dire. Comandiamo sempre noi, non comanderà mai uno come te nella strada, nella strada tu c’avrai sempre bisogno”. Senza il livello della strada non si governa. Intimidire, avere gli strumenti per minacciare, significa avere un’azienda con macchinari efficienti.

Ristorante Dar Bruttone. Anche qui è simbolo, mangiare insieme è “mangiare nello stesso piatto”. Quando fu arrestato nel 2004 Morabito il Tiradritto e gli fu dato un panino da mangiare prima di portarlo in carcere il boss si alzò dal tavolo in caserma, tra magistrati e carabinieri, e lo mangiò faccia al muro. Non si divide la tavola del cibo con chi non si riconosce. “Dar Bruttone” in zona San Giovanni, qui il 23 luglio 2013 Domenico e Luca Gramazio, padre e figlio, ex senatore e capogruppo di Forza Italia in Regione, incontrano proprio Carminati. Serve un nome per la commissione Trasparenza del Campidoglio e la mafia capitolina vuole deciderlo: è quello l’organismo che deve controllare la regolarità degli appalti.

Amicizia. La parola “amici” compare nelle intercettazioni 186 volte, la parola “amico” 312. La parola nemico compare solo 8 volte. Roma è rapporti. Roma è amicizia. Tutti conoscono tutti, chi non conosce tutti non ce la fa, non procede. Si è amici anche di chi si detesta, si è amici di chi serve. Carminati chiama Luca Gramazio “l’amico mio” Per definire un politico o un amministratore disponibile l’espressione è “amico nostro”. Riccardo Mancini (ora ex) ad dell’ente Eur è chiamato “l’amico porcone”. Nelle telefonate Carminati risponde quasi sempre “eccomi amico mio” Quando Buzzi deve imporre a Figurelli, capo della segreteria della presidenza del consiglio comunale, il nome di Politano come responsabile dell’anticorruzione del Campidoglio, gli basta definirlo “un amico nostro”. Il mondo romano è invaso da amici. Amico è la parola in codice per tutti, perché dice Carminati: “Dall’amicizia nasce un discorso di affari insieme”

Signoria criminale. Il corrotto si muove per il danaro, il mafioso si muove per il potere: questo è il passaggio fondamentale per comprendere anche il diverso ruolo tra gli uomini di Mafia capitale e i corrotti. Carminati e Buzzi guadagnano, certo, ma il loro margine di utile è il potere. Questa l’espressione usata da Procura e carabinieri: “Signoria criminale”. Tutto quel che accade anche se non c’è lucro deve esser “autorizzato, permesso”. La Signoria agevola gli affari.

La mafia che non uccide è mafia? Questa è la domanda che aleggia sull’inchiesta. A Roma e Ostia gli omicidi ci sono, eccome. C’è un accordo, citato nel libro I Re di Roma, che racconta la logica della pax mafiosa: “La pax deve regnare esclusivamente dentro il territorio circoscritto dal Grande raccordo anulare”. Nel 2011 undici omicidi avevano destato attenzione mediatica e giudiziaria. I grandi numeri cui siamo abituati nelle faide delle mafie storiche non ci sono ancora perché stiamo parlando di una mafia autoctona agli albori. E poi Roma è sotto una luce costante: le questioni militari vanno risolte lontano.

Rockfeller. Cosa c’entra? Il 27 novembre del 1979 un commando di Nar assalta una banca, la filiale all’Eur della Chase Manhattan Bank. Carminati è l’autista, e verrà condannato per questo a tre anni e mezzo. Era la banca dei Rockfeller. Come può un condannato per rapina riuscire a muoversi con così agilità? La sua forza è proprio l’essere compromesso: gli dà titolo nel costruire una caratura criminale. Una persona sotto osservazione della magistratura o in odore di inchiesta, è considerata pericolosa da avvicinare. Chi invece ha già condanne alle spalle ed è chiaramente invischiato, è una garanzia: perché ha superato il problema, perché se ha ancora potere nonostante l’inchiesta ne viene addirittura rafforzato.

Cooperative. Oggi si ha bisogno di nomi puliti. Cooperativa rimanda a una tradizione nobile, sa di pulito, non desta sospetti. La battaglia mafiosa è anche una battaglia semantica. È qui la forza di Buzzi, l’ex detenuto che vende la sua storia di omicida redento. In un paese in crisi come l’Italia, dove non si produce (e quindi il racket boccheggia) e gli investimenti criminali si fanno all’estero, gli affari si realizzano con il terzo settore. Immigrati, appalti di servizi, rapporti pubblici: “Tu c’hai idea di quanto ci guadagno con gli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. I messaggi di Buzzi confermano che il sistema cooperativo è il più esposto all’infiltrazione mafiosa.

Fondazioni. Sistema per finanziare la politica. Il meccanismo che ha sostituito le tangenti, immediate ma più rischiose. Il giorno successivo all’aggiudicazione dell’appalto sulla raccolta differenziata, le società riconducibili a Buzzi pagano in “tavoli alle cene” trentamila euro alla Fondazione Nuova Italia riconducibile a Panzironi e Alemanno. Lecito, in apparenza. Il sistema delle Fondazioni non rende chiaro il flusso di danaro. Come le coop, anche le fondazioni sono lo strumento semantico (il termine fondazione richiama un progetto culturale) e organizzativo più esposto alle mafie.

Facilitatore. È colui che sa consigliare come muoversi per ottenere un risultato istituzionale. Lobbista direbbero negli Usa. Luca Odevaine, ex capo di gabinetto di Veltroni, si difende definendosi il facilitatore di Buzzi, e per questo ne riceve uno stipendio (in nero). Perché accetta questi cinquemila euro al mese, una cifra che non giustifica la compromissione del suo patrimonio politico? Questo punto è il più importante per comprendere i fenomeni di corruzione italiani. Pannunzi, broker del narcotraffico mondiale, aveva una teoria sulla corruzione “leggera”: se paghi molto, per esempio, un agente della dogana perché chiudendo un occhio ti farà gudagnare milioni, questo non ci dormirà la notte per quei soldi, insospettirà i colleghi, la famiglia cambierà status. E il senso di colpa potrà portarlo o a confessare o a chiedere sempre più. Bisogna invece corrompere con poco. Un’utilitaria, biglietti per la partita: se corrompi con nulla, il corrotto sente di non star facendo nulla di male.

Metodo Pignatone. I magistrati Pignatone e Prestipino con la loro squadra (carabinieri, polizia ecc.) hanno cambiato il destino di Roma. Hanno messo insieme i pezzi di reati e negoziazioni che, singolarmente presi, sembravano semplici favori, piccoli scambi, tipiche pastette locali, e hanno avuto prudenza: in un’inchiesta del genere avrebbero potuto arrestare centinaia di persone e nomi eccellenti, per finire sotto i riflettori. Invece hanno investigato come si fa sui grandi gruppi mafiosi storici: comprendendone le dinamiche, i linguaggi e gli affari, i movimenti, usando le intercettazioni solo come traccia da cui partire (e non basandovi l’impianto accusatorio: la difesa di tutti gli intercettati, che per questo parlano impunemente senza troppi pudori, è “tutte millanterie”). Infine gli inquirenti hanno ricostruire il quadro generale.

La corte di Cassazione ha emesso il 10 marzo una sentenza storica sostenendo che si tratta di intimidazione di stampo mafioso anche quando l’organizzazione compromette il destino economico di un’azienda e una persona, non solo quando ne minaccia la vita con un’arma o con la violenza. La Cassazione è chiara: truccare appalti, tenere vincoli e gestire rapporti è già violenza. Non sono solo “mazzette”.

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