A Torino la mafia parla (anche) rumeno

fonte: http://espresso.repubblica.it – DI GIOVANNI TIZIAN

Il clan che controlla a Torino locali notturni, intimidisce e minaccia cantanti e musicisti, ed effettua estorsioni per la Cassazione è associazione mafiosa. Anche se si tratta di un piccolo gruppo non di origine “tradizionale” ma rumeno. Per questo motivo i giudici della Corte suprema hanno annullato la sentenza di appello che aveva escluso il 416 bis, cioè il reato di mafia.

Gli “ermellini” così dettano, ancora una volta, la linea giurisprudenziale che definisce l’associazione mafiosa. Un verdetto di cui dovranno per forza tenere conto i giudici d’appello chiamati a fare un nuovo processo. Partendo dall’assunto che per la suprema corte si tratta di mafia. Le motivazioni con cui la Cassazione bacchetta i giudici d’appello di Torino sono state depositate il 21 luglio scorso. La sentenza ha riguardato un gruppo criminale rumeno. Gli imputati sono stati condannato in primo grado per mafia, reato, poi, caduto in appello. Mafia o non mafia, dunque. L’interrogativo che ormai fa da sfondo a ogni inchiesta su gruppi criminali non tradizionali.

La seconda sezione della Cassazione, presieduta da Piercamillo Davigo, mette un punto. Per la Suprema Corte il processo è da rifare. Imputati, dunque, di nuovo in Appello, a cui dovrà essere contestato nuovamente il 416 bis. I giudici di piazza Cavour scrivono senza mezzi termini che il clan di rumeni finito alla sbarra incarna tutti i tratti tipici dell’associazione mafiosa, dando, così ragione, alla procura antimafia di Torino e alla corte di primo grado.

Ecco cosa scrive la Cassazione nelle motivazioni: «La corte territoriale d’Appello era incorsa in un’errata applicazione della legge penale, non tenendo conto che possono assumere connotazione mafiosa anche nuovi gruppi composti da un numero limitato di persone e con zone e settori d’influenza limitati… il corredo probatorio peraltro dimostrava come la forza di intimidazione fosse esercitata in diversi luoghi di ritrovo». Ma il passaggio più significativo è un altro. Quello, cioè, in cui traspare la linea della sezione presieduta da Davigo. «Nel reato di associazione mafiosa rientrano tutte quelle organizzazioni nuove, pur disancorate dalla mafia tradizionale, che tentino di introdurre metodi di intimidazione e omertà, di sudditanza psicologica».

Interpretazione, aggiungono i giudici della Cassazione, che riconduce al reato di mafia anche fenomeni di piccole mafie che si avvalgono della forza di intimidazione. Attenzione, però. «La violenza e la minaccia sono funzionali alla forza di intimidazione e non ne costituiscono un requisito indispensabile, ben potendo la stessa derivare dall’esistenza e notorietà del vincolo associativo e da precedenti comportamenti finalizzati a a creare la fama criminale del gruppo». In pratica ne consegue che l’intimidazione può prescindere dall’esercizio effettivo di specifici atti di violenza e minaccia.

Perché può contare su comportamenti precedenti che l’hanno generata senza alcuno colpo di pistola. Ora toccherà di nuovo alla Corte d’Appello giudicare questo gruppo criminale. Per la Cassazione gli indizi di mafiosità sono molti, nonostante la scena del crimine sia Torino e nonostante l’origine “non tradizionale” del gruppo.

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