Mafia, «così ad Altamura la mia vita in caserma»

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Dura la vita per un appuntato dell’Arma quando ci si deve mettere contro il proprio comandante. Lo spaccato emerge dalle dichiarazioni rese dai militari in servizio ad Altamura ai magistrati inquirenti che indagano su un presunto intreccio tra mafia e politica che per anni avrebbe imperversato nella cittadina murgiana. Nell’inchiesta, è noto, sono indagati due militari. Si tratta del maresciallo Nicola Logiudice, comandante della stazione, ai domiciliari da mercoledì scorso (oggi sarà completato il suo interrogatorio di garanzia) e del maresciallo Massimo Carotenuto (sarà sentito domani dal gip che deve decidere se sospenderlo). 

Logiudice e Carotenuto, con una «gradazione» diversa di presunte responsabilità, sono accusati sostanzialmente di avere «coperto» nel 2007 il boss Bartolo Dambrosio, omettendo di denunciarlo quando l’uomo, sorvegliato speciale, non si presentava la domenica in caserma per firmare l’apposito registro. L’altra accusa riguarda le relazioni di servizio trasmesse in Tribunale in cui veniva attestata, falsamente, la buona condotta del sorvegliato speciale. 

Nell’ambito dell’indagine sono numerosi i militari, sottufficiali e ufficiali, ascoltati dai pm baresi Desirèe Digeronimo, Francesco Bretone e dal sostituto della Dna Roberto Pennisi, applicato all’Antimafia barese. È il 24 febbraio scorso quando l’appuntato dei carabinieri P. viene sentito a sommarie informazioni dagli inquirenti. «Vorrei che la S. V. – dice tra l’altro – comprendesse lo stato psicologico in cui io e tanti miei colleghi ci troviamo, tra l’incudine e il martello, cioè se rispettare quanto ci è stato richiesto dal maresciallo Logiudice oppure dire la verità». 

Poco prima il magistrato inquirenti aveva diffidato formalmente l’appuntato a dire la verità senza reticenze. 

«Durante tutto l’esame – prosegue P. – sono stato combattuto da queste due forze e, per questo, la S. V. ha rilevato incongruenze e reticenze che mi sono state fatte notare. Ma, via via che rispondevo, dentro di me cercavo di acquistare forza e fiducia per liberarmi da quello stato di tensione. Quale dipendente di una stazione so benissimo che se non faccio ciò che mi dice il maresciallo la mia vita diventa intollerabile attraverso mille sistemi che possono essere orari di servizio, note riservate, l’ordine pubblico nei giorni in cui si sa che posso avere degli impegni ecc. anche se ci si comporta sempre ligi al dovere come ho cercato di fare io». 

Tra l’incudine rappresentata dal dovere di rispondere alle domande degli inquirenti e il martello rappresentato dal potere di chi potrebbe rendere la vita impossibile. L’appuntato racconta di quei verbali che non venivano tenuti, delle denunce che venivano omesse, della «retromarcia» a seguito di una ispezione disposta dal comando provinciale dei carabinieri. Solo allora, a quanto pare, qualcuno sarebbe stato «costretto» a denunciare le violazioni del boss. 

Un caso non isolato stando a quanto un altro appuntato, B., ha riferito al pm inquirente. 

«Mi chiede per quale motivo non abbia voluto dire immediatamente ciò che ho appena detto rischiando l’incriminazione per “false dichiarazioni” ed io rispondo che avevo paura di eventuali ripercussioni dicendo al verità. Temevo reazioni da parte del maresciallo Logiudice se avessi detto la verità alla S.V., anche perché dopo essere stato sentito dalla Guardia di Finanza, il maresciallo Logiudice mi chiese cosa gli avessi detto, ed io glielo dissi», omettendo solo un riferimento. «Anche prima di presentarmi oggi davanti alla S.V. il Logiudice ha avvicinato me» e il collega P. «e ci ha invitati a riferire le “cose come stavano”, riferendosi cioè alla versione come l’avevo raccontata prima che la S.V. mi sollecitasse a dire la verità». 

[g. l.] 

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