Impresa dei clan con griffe antiracket

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La Dia sequestra il patrimonio dei Virga che denunciarono alcuni estorsori
Da famiglia di braccianti agricoli, allevatori e casalinghe negli anni Ottanta a uno dei più potenti gruppi imprenditoriali di Sicilia 35 anni dopo. La parabola ascendente dei Virga, re del calcestruzzo di Marineo cresciuti all’ombra di Cosa nostra e finiti anche loro sotto le bandiere dell’antiracket, è l’ennesimo paradigma di quell’area grigia contigua alla mafia che, per salvaguardare il proprio patrimonio, non ha esitato ad abbracciare l’antimafia.
Qui si costruisce il libero futuro” recita il cartellone che si sono trovati davanti gli agenti della Dia andati ad apporre i sigilli a un patrimonio da 1,6 miliardi di euro sequestrato dalla sezione misure di prevenzione del tribunale su proposta del direttore della Dia Nunzio Ferla. Uno dei più grossi sequestri di sempre a un impero fatto di impianti di calcestruzzo e aziende di saldatura, dalle case di riposo alle aziende agricole oltre che da terreni, edifici, conti correnti e depositi titoli.
Dei fratelli Carmelo, Vincenzo, Francesco, Anna e Rosa Virga parlano sin dagli anni Novanta decine di pentiti, da Brusca a Giuffrè: tutti concordi nel definirli imprenditori di riferimento di Cosa nostra, strettamente legati al boss di Belmonte Mezzagno Ciccio Pastoia e per il suo tramite a Bernardo Provenzano. Secondo gli investigatori erano parte attiva di quel tavolino degli appalti gestito negli anni Ottanta da Angelo Siino. Conferma Giovanni Brusca: «I grossi appalti li gestiva con il presidente Nicolosi e Virga. Queste erano le persone più coinvolte nella spartizione ».
Eppure nel 2010, dopo essersi aggiudicati la fetta più grossa degli appalti pubblici in forza dei rapporti con quei boss ai quali comunque pagavano il pizzo, i Virga denunciano un’estorsione e contribuiscono all’arresto di cinque boss della cosca di Marineo. Assistiti processualmente da Libero Futuro, i Virga vanno persino in aula a riconoscere e denunciare il loro estorsore ma i giudici non credono alla loro versione. Ora dalle intercettazioni viene fuori che il loro avvicinamento alle associazioni antiracket e alla collaborazione con i pm era tutta una strategia per provare a salvare il patrimonio. «Nino, quello di Trapani — dice uno di loro intercettato — dice che gli hanno sequestrato tutte cose. Misure di prevenzione a 80 anni ed è finita la partita ». Ecco, perché, quando la denuncia degli imprenditori non fa più clamore, anche i Virga provano a “salvarsi” con la maglietta dell’antiracket, cercando persino di ottenere vantaggi con l’assegnazione di appalti per la ricostruzione de L’Aquila dopo il terremoto. E anche loro vengono ascoltati mentre ne ridono al telefono.
Oggi Addiopizzo dice: «Da anni avevamo ritenuto non opportuno includere nella rete di consumo critico antiracket quelle società. Tale scelta è stata compiuta in tempi non sospetti e nonostante gli operatori economici avessero sporto delle denunce per degli episodi estorsivi».
a.z.

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Gli affari sporchi e l’antimafia di facciata.  “Così i Virga hanno imbrogliato lo Stato”

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I conti dell’Antimafia non tornano. Da un lato gli imprenditori Virga, colpiti nei giorni scorsi dal più grande sequestro mai eseguito in Italia, sono stati considerati meritevoli di ottenere un beneficio dallo Stato. Dall’altro, le intercettazioni svelerebbero l’“imbroglio” da loro orchestrato per svestire i panni dei carnefici e indossare quelli delle vittime.

Spogliarsi di tutti i beni, affidandoli ad una rete di prestanome. Quindi, collaborare con la giustizia. O meglio, fare finta. Ed infine accreditarsi tramite le associazioni antiracket. Carmelo Virga, considerato l’uomo forte della famiglia originaria di Marineo, nel Palermitano, aveva studiato ogni mossa. Almeno così sostengono gli uomini della Direzione investigativa antimafia e i giudici della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che hanno quantificano il patrimonio, suo e dei suoi parenti, in un miliardo e 600 milioni di euro . “Le imprese del Gruppo Virga – si legge nel provvedimento di sequestro- sono una proiezione degli interessi di Cosa nostra nel settore immobiliare, edile, produzione e lavorazione di inerti, bitume, conglomerati cementizi, produzione di gas terapeutici ed industriali, ristorazione”.

Eppure a fine 2013 il gruppo Virga ha ottenuto uno dei benefici che lo Stato riconosce a chi denuncia. E cioè il congelamento, per un anno, dei debiti nei confronti dell’erario, mentre non si hanno notizie sulla domanda di accesso al fondo statale per le vittime del racket. È certo, comunque, che gli imprenditori non hanno ancora incassato il milione mezzo di euro richiesto. Il congelamento dei debiti, questo sì, è arrivato due anni fa con il via libera della Procura. Procura che aveva archiviato l’indagine a loro carico per intestazione fittizia dei beni.

E i conti, ancora una volta, non tornano. Quella dei Virga viene descritta oggi dagli investigatori della Dia come la storia di un gruppo di manovali divenuti potentissimi e ricchissimi imprenditori partecipando alla spartizione illecita delle commesse pubbliche, quando Totò Riina e Bernardo Provenzano affidarono ad Angelo Siino la gestione degli appalti. Sui Virga, chiamati in causa da una sfilza di collaboratori di giustizia, in passato si è indagato, dal punto di vista penale e patrimoniale, senza che le inchieste approdassero a qualcosa. Sono rimasti immuni da qualsivoglia provvedimento giudiziario. Si sono accumulate, però, montagne di carte che gli agenti della Dia, agli ordini del capocentro di Palermo Riccardo Sciuto, hanno studiato di nuovo da cima a fondo. Sono confluite nella proposta di sequestro accolta dal collegio delle Misure di prevenzione presieduto da Silvana Saguto, Lorenzo Chiaramonte e Fabio Licata.

Le carte giudiziarie svelerebbero l’”imbroglio” di Carmelo Virga per costruirsi un’immagine di rispettabilità – secondo gli investigatori, solo apparente -, sfruttando l’etichetta dell’antimafia. Aveva capito, sostengono alla Direzione investigativa antimafia, che l’interdittiva con cui, nel 2007, l’allora prefetto di Palermo, Giousuè Marino, ne bloccò la partecipazione ad un appalto in città, sarebbe stato l’inizio dei suoi guai. E così spiegava a Salvatore Lanzalaco – lo stesso pentito Lanzalaco che era stato uno dei suoi grandi accusatori diveniva, con una logica stridente, suo confidente un decennio dopo – che “… io la decisione già l’ho fatta. Praticamente voglio fare: la Comes fare una società e dividerla ad un cerchio di persone. La Sicilcryo la vendo al mio consulente, la Calcestruzzi San Ciro che è la più problematica faccio una società di servizi, e si danno tutte cose in affitto… nomi nuovi… a persone nuove e tutte cose fatte…”.

Per completare il piano servivano altre due mosse: collaborare con la magistratura e aderite al movimento antimafia. Virga sarebbe “andato a lezione” da Franco Diesi, imprenditore corleonese pure lui, anni fa condannato in primo grado e poi assolto in appello assieme al padre Leonardo dall’accusa di associazione mafiosa. Così come, un altro fratello, Giuseppe, era stato scagionato in secondo grado al processo dove era imputato assieme al figlio di Totò Riina, Giuseppe Salvatore, che tutti chiamano Salvuccio. Anche Diesi, che di recente, ricordano gli investigatori, è stato interdetto dalla prefettura di Milano dalla partecipazione ai cantieri di Expo 2015, ha tentato di accreditarsi quale collaboratore di giustizia. Carmelo Virga spiegava al fratello Vincenzo, di avere confidato a Franco Diesi di avere cercato di risolvere la faccenda invano: “legalmente non ci arrivo, gli ho detto politicamente peggio, ed ancora non ho trovato la strada”. E così non restava che ripetere il percorso tracciato da Giuseppe Diesi, nei confronti del quale neppure il fratello Franco era tenero: “Lui è passato da quel lato… peggio di un carabiniere”. Carmelo Virga considerava Giuseppe il “più accreditato” a parlare con gli investigatori, colui senza il quale “noi qua non ci potevamo arrivare… ci mettevano alla porta”.

Bisognava essere credibili agli occhi degli investigatori. Come?, tirando in ballo gente contro cui era facile puntare il dito: “Un po’ di cose gliele dobbiamo dire… cristiani morti qualcuno che è vero là (in carcere, spiegano gli inquirenti ndr) e non può uscire più”. Giuseppe Diesi, d’altra parte, era stato piuttosto chiaro: “Se ci vai a raccontare cose vecchie solamente, dice, ci sta prendendo per il culo. Ma se ci sono anche cose nuove…”. Raccontando circostanze inedite non ci sarebbero stati ostacoli e magari – Diesi lo diceva ridendo – “quanto prima sono capaci di darmi la scorta”.

L’ultimo tassello del piano era entrare a fare parte di un’associazione antiracket. “Bisogna stare dentro Addiopizzo perché questa associazione tra un anno, due anni ti faccio vedere – spiegava Carmelo Virga – che gli fanno una legge che tutti i beni confiscati alla mafia li devono… noi dobbiamo fare affari con questi, te lo dico io”. Il comitato Addiopizzo ha precisato, nei giorni scorsi, che “non aveva ritenuto opportuno includere nella rete di consumo critico antiracket le società dei Virga, nonostante gli operatori economici avessero sporto denunce per episodi estorsivi”. Denunce che sono state ritenute attendibili, tanto da costituire l’ossatura per le condanne inflitte in due processi, a Messina e Palermo. In un altro dibattimento, sempre a Palermo, invece, è arrivata l’assoluzione per l’imputato perché la denuncia dei Virga fu ritenuta falsa perché dettata da interessi personali.

Ed è tramite l’associazione Libero Futuro che gli imprenditori di Marineo hanno bussato alla porta degli investigatori. Agli atti ci sono pure le conversazioni tra Carmelo Virga ed Enrico Colaianni, presidente dell’associazione antiracket. “Io domattina la prima cosa che faccio telefono al capitano e poi ti richiamo”, gli diceva Colaianni, nella logica di “accompagnamento” lungo il percorso di denuncia, così come previsto dall’associazione antiracket, Un percorso che, dicono ora gli investigatori della Dia, è stato taroccato, studiato a tavolino per mascherare la scalata imprenditoriale “appoggiata” da Cosa nostra.

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