Il dibattito politico cittadino nelle ultime settimane, per quanto scomposto e confusionario, ha avuto il grande merito di aver messo in luce alcune contraddizioni irrisolte del “popolo di sinistra”. I discorsi più o meno ufficiali di esponenti dei partiti, simpatizzanti e cittadini comuni si sono attorcigliati attorno al tema del momento, l’individuazione del candidato sindaco.
C’è poco da fare, il piano delle retoriche e quello delle pratiche in campagna elettorale sono destinate a disgiungersi sensibilmente al punto che anche i più sinceri tentativi di “innovazione” vengono assorbiti dentro le consuete e ciniche logiche della realpolitik.
Non necessariamente queste dinamiche devono essere ricondotte alla malafede e ai tatticismi dei gruppi dirigenti della politica locale, ma probabilmente c’è uno stretto legame fra quella che sembra l’inevitabile personalizzazione di un’opzione politica e quella che potremmo definire la cultura dell’eroe. Questo legame sembra indissolubile sia a livello nazionale che a livello locale, e consiste nel dare per scontato che ci siano delle persone dotate di qualche qualità superiore che, in quanto tali, possono garantire il governo del bene comune.
La ricerca di eroi politici, consapevolmente e volutamente perseguita da gran parte di chi si riconosce in un quadro ideologico di destra, appare decisamente poco coerente con quelle formazioni che da lungo tempo hanno adottato la retorica della partecipazione e del coinvolgimento. Nonostante le primarie, gli incontri pubblici, le presentazioni e tutte le altre forme di aperto e libero confronto, la tentazione di affidarsi ad un nome e cognome a cui delegare finanche il successo di una competizione elettorale è irresistibile. E così succede che si impieghino risorse ed energie per cercare nuovi metodi di discussione politica capaci di ridare un senso alla parola “rappresentanza” ma poi ci si arrende ai modi classici fatti di un “cavallo vincente” affiancato dai necessari “pacchetti di voti”. E, purtroppo, quasi sempre così si vincono le elezioni perché è un metodo lungamente sperimentato, basato sul radicamento territoriale del consenso, quindi sul numero dei voti (nel migliore dei casi anche sulla fiducia personale).
Ora torniamo al dibattito confusionario di questi giorni. Che il meccanismo sopra illustrato abbia progressivamente svuotato il senso della partecipazione politica è autoevidente e l’astensionismo ne è la prova provata. Allo stesso tempo la reazione scomposta di alcuni gruppi di cittadinanza attiva così come di alcuni tesserati dei partiti di sinistra, spesso accomunati da una sorta di comunanza generazionale, mostra che per molte persone è arrivato il momento di prendere sul serio la possibilità di esplorare metodi nuovi. Solo che questi si basano evidentemente sull’assenza di eroi. Anche perché in ballo c’è una sfida che una sola persona difficilmente può assumersi, ovvero quella di ridare senso alla partecipazione politica in termini di rappresentanza, stabilendo un collegamento fra cittadini e amministratori. Si tratta di rilevare la domanda di politica, i bisogni e le esigenze della gente, si tratta di interpretare questi elementi, si tratta di costruire i programmi di governo in coerenza con quello di cui hanno bisogno le persone, si tratta di individuare i modi, i tempi e i saperi necessari alla realizzazione del programma di governo e, in ultima analisi, si tratta di individuare le molte persone che hanno il coraggio di garantire la messa in opera di questo processo collettivo.
Questa è una politica complicata, irriducibilmente antieroica, modesta e timida, fatta di responsabilità enormi che solo una leadership diffusa, cooperativa e plurale può assumersi.
Ma se il ragionamento sin qui sviluppato avesse senso, in questa fase la priorità può mai essere quella di individuare un nome e cognome?