L’ex capo del clan di Carrassi, Picone e Poggiofranco sta rivelando attività e affari, ma anche l’esistenza di un vero e proprio welfare mafioso – fonte: Chiara Spagnolo- bari.repubblica.it
“C’è stato un periodo in cui vendevo posti di lavoro. Si era sparsa la voce, ero diventato come l’ufficio di collocamento e tutti venivano da me a chiedere aiuto…“: non ci sono soltanto i segreti della criminalità organizzata barese nei racconti che Vincenzo Anemolo, il boss pentito del quartiere Carrassi, sta facendo alla Direzione distrettuale antimafia.
C’è il racconto di un mondo di mezzo, in cui si muovono tante persone che non fanno parte dei clan ma a esso si rapportano quotidianamente per sopravvivere e lavorare. Ci sono gli imprenditori che pagano il pizzo per mandare avanti in pace i loro cantieri, i proprietari di bar e pub che versano la mesata per non avere problemi, perfino tante persone che alla porta dei boss bussano per chiedere aiuto nella ricerca di un’occupazione. Indicazioni in tal senso erano già arrivate in passato dai collaboratori di giustizia, che avevano rivelato come i più importanti referenti della criminalità barese fossero riusciti a piazzare amici e parenti in diverse società partecipate del Comune, come delle Asl. E i racconti di Anemolo, nel suo primo interrogatorio, diventano la ciliegina sulla torta.
I segreti rivelati
Il capo dell’omonimo sodalizio criminale (“Il clan sono io”, dice) ha scelto la strada della collaborazione in piena estate. Dopo che la Procura antimafia gli ha fatto notificare l’avviso di conclusione delle indagini preliminari in cui viene indicato come mandante dell’omicidio di Fabiano Andolfi, un suo ragazzo che a un certo punto aveva deciso di passare sotto Filippo Capriati e cominciato a svolgere attività illecite per conto suo nelle strade di Carrassi. La sua morte era stata decretata in un battito di ciglia, l’omicidio avvenuto in casa della nonna. Dopo gli arresti si erano pentiti sia l’esecutore materiale Filippo Cucumazzo sia il complice Donato Di Cosmo (che a breve saranno processati con il rito abbreviato insieme con altre sette persone). Le loro dichiarazioni avevano inchiodato Anemolo, che ha quindi deciso di pentirsi a propria volta e ha iniziato a raccontare i segreti del suo clan (e non solo). A condurre l’interrogatorio del 14 settembre è stato il pm Marco D’Agostino, lo stesso che ha già raccolto le dichiarazioni degli altri sodali. A lui l’ormai ex boss ha spiegato di essere uno che preferiva le tradizionali estorsioni e che non aveva voluto impegnarsi nella vendita di droga, lasciando la piazza di Carrassi e Poggiofranco a Francesco Cascella del clan Palermiti
I cantieri sotto scacco
“Io prendevo la guardiania dai cantieri nelle zone di Carrassi, Poggiofranco e pure Picone. Inoltre avevo due locali in via Monte Grappa. Ci sono stati periodi che dai cantieri prendevo anche 7-8mila euro. Con una parte di quei soldi pagavo i ragazzi, anche quelli che stavano in carcere, gli mandavo 2-300 euro a settimana, gli mettevo l’avvocato, gli facevo la spesa. A Di Cosmo davo il 20 per cento di quello che prendevo, perché lui faceva tutto“. Oltre a raccontare nel dettaglio l’organizzazione dell’omicidio Andolfi e anche il successivo tentativo di uccidere Cucumazzo, Anemolo ha fornito un importante quadro di insieme della vita del clan nel cuore di Bari. Spiegando come la sua figura si ponesse al centro di un sistema di relazioni in cui lui spesso elargiva favori, ricevendo in cambio una riconoscenza da usare all’occorrenza. O anche denaro. Come accadeva, per esempio, negli anni in cui vendeva addirittura posti di lavoro.
Il welfare mafioso
Di tale consuetudine, il pentito ha parlato sia nell’interrogatorio che in un lungo memoriale consegnato agli inquirenti facendo riferimento a una società che effettua vari servizi a un megastore, nonché all’uomo che faceva da tramite per le assunzioni che erano prevalentemente di vigilantes: “Vi dico solo il cognome, il nome non me lo ricordo ma se prendete il mio telefono lo trovate“. “Lui praticamente prese l’appalto – ha raccontato – Teneva dieci posti di lavoro? Si faceva avere 2mila 500, 3mila, anche 3mila 500 euro e ce li dividevamo tra di noi e poi mettevamo le persone a lavorare. Ormai si era sparsa la voce, ero diventato l’ufficio di collocamento: tutti venivano da me. Poi la cosa si è bloccata. Anche a mia nuora l’ho fatta mettere a lavorare all’Università e anche la moglie di quell’altro, lo pagò il posto di lavoro, anche se era part-time”. Il meccanismo funzionava soprattutto verso le persone bisognose: “Venne la moglie di Francesco, che stava in carcere e disse: lui non ha niente, se puoi trovarmi un lavoro” e io dissi: signora, appena sarà possibile e ne ho l’occasione lo faccio volentieri. Per il momento non ho niente“.
Il complice al Policlinico
Naturalmente una tale quantità di favori, veniva ricompensata nei modi più disparati. Tanto che quando il boss chiedeva, c’erano tanti che facevano a gara per accontentarlo. Come quando decise di far uccidere Cucumazzo e chiese ai suoi sodali di procurare del veleno: “Io incaricai De Benedictis (Giovanni n.d.r.) o Di Cosmo per avere questo veleno da uno del Policlinico, forse era un infermiere o comunque uno che lavorava là dentro, era un parente di uno di loro, l’ho visto soltanto una volta, non ricordo il nome ma aveva i capelli ricci“. Una persona che portò fuori dall’ospedale due fiale di veleno: “La prima la persero e quindi ne prese una seconda“. L’omicidio non si consumò perché Cucumazzo aveva capito che Anemolo e i suoi volevano fargli del male e aumentò le sue cautele. Anche quel delitto era stato deciso in un istante da Anemolo e senza alcuna remora per la gravità di ciò che si progettava.