Una rigorosa divisione di quote: i versamenti da 40mila a 20mila euro – fonte: Chiara Spagnolo – quotidiano.repubblica.it
Ragionavano come veri e propri imprenditori, gli uomini del clan Palermiti quando si trattava di fare soldi. Per gestire il traffico di droga, che consentiva loro di guadagnare cifre elevatissime da reinvestire in attività legali, nel 2017 avevano messo in piedi una vera e propria società — chiamata “della guerra” — insieme con esponenti del clan Parisi, dopo aver rinsaldato l’alleanza per far fronte alla scissione del gruppo di Antonio Busco. La struttura aziendale è stata ricostruita nell’indagine della Polizia che il 26 febbraio ha portato all’esecuzione di 130 misure cautelari e svelato gli intrecci tra mafia e politica nonché la solidità finanziaria dei clan di Japigia, infiltrati in molti settori dell’economia cittadina compreso il turismo.
La “società della guerra” era costituita da 18 soci finanziatori (12 dei quali avevano versato il capitale iniziale di 40mila euro e sei di 20mila) e due soci onorari. I nomi di chi faceva parte di quella che era una realtà imprenditoriale a tutti gli effetti sono stati ricostruiti grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Domenico Milella, ex luogotenente del clan Palermiti, e al libro mastro che fu ritrovato a casa di Giovanni Diomede a Japigia, in cui erano custodite armi e droga, l’8 settembre 2017. Oltre a Milella erano soci finanziatori Eugenio Palermiti, il figlio Giovanni e il genero Filippo Mineccia, Michele Ruggieri (cassiere in quota Palermiti), Radames Parisi, Umberto Lafirenze, Raffaele Addante, Francesco Triggiani (cassiere in quota Parisi), Carlo Sebastiano, Silvio Sidella (tutti a quota intera), poi Raffaele Castoro, Michele Parisi, Michele De Salvatore, Francesco Abbrescia, Domenico Silecchia, Nicola Stramaglia (mezza quota) nonché Giovanni Mastrorilli e Sebastiano Ruggeri (ad honorem).
«Decidemmo di affrontare questa guerra, che uno era disposto a fare qualunque cosa, dovevamo mettere in mezzo anche le forze economiche — ha spiegato Milella — Io dissi: mettiamoci tutti insieme per stare uniti». I soldi furono consegnati ai due cassieri e investiti nell’acquisto di cocaina ma anche per maschere, auto e moto da usare per gli agguati, per pagare le carte di circolazione delle macchine blindate.
Che i guadagni fossero altissimi lo hanno confermato le intercettazioni, dalle quali si evince che a meno di un anno dalla costituzione del fondo cassa erano stati spartiti utili già tre volte per un totale di 80-100mila euro. Qualcuno, però, si lamentava di non guadagnare abbastanza, come quel Sebastiano Ruggieri che nell’aprile 2018 diceva: «Ma si può stare per otto mesi con 22mila euro? Loro sanno stare con 3mila euro al mese? Se volevo stare con lo stipendio me ne andavo a lavorare alla ferrovia… ».