Trent’anni fa il rogo che distrusse il teatro Petruzzelli

Il 27 ottobre del 1991 a Bari bruciò il teatro Petruzzelli. Per la città fu uno dei colpi più duri. Intrighi, veleni, speranze, illusioni Il teatro è risorto, ma alcuni misteri non sono mai stati risolti. Questi sono i protagonisti di quella storia. 30 anni dopo – fonte: Giuliano Foschini (coordinamento editoriale),  Gabriella de Matteis,  Isabella Maselli,  Chiara Spagnolo,  Paolo Russo (coordinamento multimediale) – bari.repubblica.it

Ferdinando Pinto, il gestore che era nato in un teatro, nel senso che casa sua, da bambino, era nel teatro Margherita, porta ancora i baffi. E racconta che lui nel teatro non è ancora riuscito a rientrarci: “Il colore delle fiamme. Il fumo acre che ti entra nelle narici, il calore, tutto che sembra sciogliersi. Ci passo, mi capita di fermarmi a prendere un caffè. Ma no, non ho ancora avuto il coraggio di passare quelle porte“. Carlo Maria Capristo, il magistrato, si è seduto davanti al sipario di velluto rosso in una serata di gala, in una delle inaugurazioni del teatro restituito alla città. Dietro di sé aveva la scorta, “signor Procuratore benvenuto”, gli ripetevano zelanti le maschere. Ma non sapeva ancora che le fiamme, quelle della sua carriera, dovessero ancora essere appiccate. Vitino L’Enèl, il manovale dal cervello raffinato, ha la sua storia chiusa nel nome: dicono, “lo chiamavano l’Enèl perché aveva lavorato nella società“. “Bugia, perché come accendeva lui le cose…” sorride ancora oggi un vecchio compagno di battaglia. L’Enèl oggi lo puoi incontrare alla mattina prima della nove alla Champagnerie, a bere un caffè con avvocati e imprenditori della città. “Signor Vito…” lo chiamano e lui, come sempre, sorride e parla molto poco.  Di lui si è detto tantissimo e trovato poco: certo è che il figlio, Francesco, prima di tutti gli altri ha intuito il grande potenziale delle agenzie di scommesse on line, costruendo un piccolo impero. E che Vitino fosse innamorato del ristorante di fronte al Petruzzelli: “Vorrei prenderlo” disse una volta agli amici. “Per vederlo tutti i giorni”. Tonino Capriati, il boss, era il suo dominus. Era un re. E’ diventato vecchio dietro le sbarre, come succede a tutti i mafiosi che non muoiono o non si pentono. Era febbraio del 2004, il teatro era ancora lì, e puzzava di bruciato, quando Tonino Capriati tornò libero per qualche giorno. Prima di portare le sue figlie in libreria, a favore di telecamere (“sono un uomo di pace” disse a Repubblica), volle passare da sotto il teatro. Chissà se mai lo rivedrà.

Michele Laforgia, l’avvocato, invece lo vede tutte le mattine. Ci passa davanti in bicicletta, nel tragitto che lo porta da casa al suo studio di avvocato. “Quando gli dissi che avrei difeso Ferdinando Pinto, fu forse la prima volta che mio padre mi chiese: perché? Perché sono un avvocato, gli risposi“.

Dicono che gli eventi che hanno fatto la storia li riconosci da un particolare: tutti si ricordano dov’erano in quel preciso momento. Dove eravate quando sono crollate le Torri Gemelle? Dove, quando l’Italia ha vinto il mondiale? Ai baresi: che avete fatto quando vi hanno detto che bruciava il Petruzzelli?

C’è una differenza, però. Tra chi la storia la guarda. E chi, quella storia, la fa.

Chi la storia la fa, si ricorda anche tutto quello è successo dopo.

E “dopo”, al Petruzzelli, sono 30 anni.

Carlo Maria, il pm

“Pierpaolo Bari ti ama, se tu ci aiuti ti ricorderà per sempre”: era il 21 giugno 1993 quando il pm Carlo Maria Capristo in un ospedale di Catania interrogava Pierpaolo Stefanelli, musicologo tra i collaboratori di Fernando Pinto, il gestore del teatro Petruzzelli. Per ore – mentre l’uomo era in punto di morte – cercò di fargli dire che la persona che prestava soldi a Pinto era Vito Martiradonna, usuraio conclamato noto con il soprannome di Vitin’ l’Enèl.

Carlo Maria Capristo 

Capristo aveva 40 anni e l’inchiesta sul rogo del Petruzzelli era la ribalta che cercava da tempo. Insieme al collega della Dda Giuseppe Chieco, pochi giorni dopo, fece arrestare Pinto, il custode Giuseppe Tisci i boss Savino Parisi e Antonio Capriati e l’usuraio Vito Martiradonna. Nelle indagini furono prese come oro colato le rivelazioni di Salvatore Annacondia, pentito di Trani poi definito poco credibile dai giudici. A quel tempo, però, premeva trovare una soluzione al rebus dell’inchiesta, i cui risultati furono presentati in conferenza stampa proprio il giorno in cui fu illustrata la prima operazione che sanciva i legami tra mafia e imprenditoria locale, svelando i rapporti tra i Parisi-Capriati e le Case di cura riunite di Cicci Cavallari. Nel tritacarne di quella vicenda (finita con assoluzioni e la morte di Cavallari) furono coinvolti 8 magistrati baresi e anche Capristo fu tacciato di rapporti poco chiari con quell’ambiente, a causa del genero che lavorava in una società dello stesso gruppo e dell’autista delle Ccr che spesso lo accompagnava. Successivamente fu lo stesso Cavallari a fare il nome di Capristo, determinando l’avvio di un’inchiesta della Procura di Potenza dalla quale poi uscì pulito. A Bari, intanto, andava avanti quella sul Petruzzelli, che nel 1998 diventò processo e vide in aula, accanto a Capristo quel Francesco Giannella che oggi è il capo della Dda di Bari. Dopo una requisitoria durata sei udienze, le richieste di pena furono pesanti, le condanne anche: Per Pinto 7 anni e 8 mesi, 3 anni al custode Giuseppe Tisci, 4 anni e 6 mesi all’esecutore materiale Giuseppe Mesto; 7 ad Antonio Capriati e Vito Martiradonna.

Tra alterne vicende – appello, Cassazione e appello bis – si arrivò nel 2005 alla sentenza definitiva, che assolse i presunti mandanti e condannò solo colui che avrebbe appiccato le fiamme: Giuseppe Mesto. All’epoca Capristo non era più a Bari e la fine ingloriosa del processo non fu un suo problema. Da pm rampante qual era fu trasferito a Siena e poi divenne procuratore di Trani, dove firmò inchieste clamorose, come quella sulle agenzie di rating, sul nesso tra vaccini e autismo, su Silvio Berlusconi e le presunte pressioni per far chiudere la trasmissione Annozero. Il suo nome era spesso in prima pagina sui giornali ma contro di lui fioccavano contemporaneamente esposti alla Procura di Lecce. Che nel 2019 fece arrestare per corruzione in atti giudiziari i magistrati Antonio Savasta e Michele Nardi, entrambi molto legati a Capristo. Da quel momento per lui fu l’inizio della fine. Perché da Lecce alcune denunce arrivarono a Potenza, considerato che nel frattempo Carlo Maria era stato nominato procuratore di Taranto, proprio nei giorni difficilissimi in cui l’inchiesta Ambiente svenduto sull’inquinamento dell’Ilva si apprestava a diventare processo. Lì avrebbe tessuto trame corruttive con avvocati e manager, aiutato gli amici ad avere incarichi, lo Stato a non far spegnere l’acciaieria. “Ha avuto un atteggiamento processuale favorevole in cambio di favori”: ha contestato la Procura di Potenza nell’estate 2021.

In realtà, già a maggio 2020, era esplosa la prima bomba: Capristo era stato arrestato, insieme a tre imprenditori di Bitonto e a un poliziotto di sua fiducia, per aver cercato di orientare positivamente un’indagine in cui i suoi amici erano parte offesa. A denunciarlo erano stati due pm che avevano lavorato con lui: Lanfranco Marazia e Silvia Curione, oggi in servizio a Bari, lamentando indebite intromissioni nel loro lavoro. Pochi mesi fa Capristo se li è ritrovati davanti in Tribunale, a testimoniare contro di lui. Nel frattempo un’altra tegola è caduta sulla sua testa: dai verbali dell’avvocato siciliano Piero Amara, i pm lucani, hanno imbastito una seconda indagine che lo vede al centro di una fitta rete di favori e poteri, dipanata tra Roma, Trani e Taranto. Nei racconti si parla di cene con faccendieri e rappresentanti delle istituzioni, delle cordate al Csm, della volontà ostinata di Capristo, nel 2016, di diventare procuratore di Taranto. Ad aiutarlo sarebbero arrivati altri magistrati ma anche politici, consulenti e avvocati. Lui avrebbe, a sua volta, fatto favori e chiesto in cambio incarichi per gli amici, come l’avvocato Giacomo Ragno. In questa trama di corruzioni reciproche, i magistrati di Potenza hanno inserito anche Enrico Laghi, l’ex commissario dell’Ilva finito agli arresti domiciliari e recentemente tornato in libertà. I suoi rapporti con Capristo sarebbero stati di do ut des, ipotizza l’inchiesta ancora in corso da parte di polizia e guardia di finanza. In attesa di un secondo processo, Capristo ha detto definitivamente addio alla magistratura, con le dimissioni presentate già dopo l’arresto del 2020 poi ratificate dal Csm. Per lui, che adesso vive da pensionato tra la villa di Bari e quella di Rosa Marina (Ostuni), il flop dell’inchiesta sul Petruzzelli è poco più che un lontano ricordo. A proposito: martedì gli hanno notificato un nuovo avviso di conclusione delle indagini.

Vitino, il manovale

Le fiamme che divoravano il Petruzzelli sono ormai solo un lontano ricordo per Vito Martiradonna, che da pochi giorni ha una nuova gatta da pelare con la condanna inflitta dalla Corte d’appello dopo 23 anni di processo per il narcotraffico dai Balcani. Quei nove anni di pena potrebbero diventare un grosso problema per il boss 72enne, troppo giovane per godere della sospensione condizionale ma al tempo stesso troppo anziano per affrontare il carcere con la baldanza di un tempo. A rendere le cose più difficili, ci si è messo anche l’arresto ad aprile del suo avvocato storico, Giancarlo Chiariello, accusato di corruzione in atti giudiziari insieme all’ex giudice di Bari Giuseppe De Benedictis. Con il penalista Vitino detto l’Enèl (per il lavoro svolto per alcuni anni alle dipendenze della società elettrica) aveva un legame a filo doppio, così come con altri pezzi importanti della buona società barese. Già al tempo del rogo del Petruzzelli, quando di anni ne aveva poco più che quaranta, Martiradonna era un personaggio ben diverso dai boss con cui faceva affari. Le basi della sua fortuna le aveva gettate grazie al traffico di stupefacenti e il boss Antonio Capriati in persona gli aveva affidato il ruolo delicatissimo di cassiere.

 

Vito Martiradonna 

Ma la sua vita non era certo quella del mafioso ignorante e chiuso nel suo quartiere. In una gioielleria di corso Vittorio Emanuele (formalmente intestata a due anziani) aveva messo sù un vero e proprio ufficio da usuraio, a cui tanti avrebbero bussato in cerca di prestiti. Compreso quel Ferdinando Pinto che per due decenni ha considerato mandante del rogo. Pinto –  era convinzione della pubblica accusa – era tenuto sotto scacco da Vitino e insieme a lui, a Savino Parisi e a Filippo Capriati avrebbe congegnato il piano di distruzione del teatro per truffare l’assicurazione. A dimostrazione dello strapotere di Martiradonna, all’epoca i pm, portarono anche l’evidenza di una imminente sua nomina nel Consiglio di amministrazione della Fondazione Petruzzelli. Ma né quella né altre prove superarono il vaglio dei processi d’appello. Dal primo grado Vitino era uscito con una condanna a sette anni, il suo nome era stato ripetuto fino allo sfinimento da una serie di pentiti ma non erano stati capaci di confermarlo i più stretti collaboratori di Pinto. Tra le ipotesi che la Procura aveva posto alla base della sua ricostruzione, c’era anche l’eventualità che Pinto avesse concordato con i boss un piano di ricostruzione del Petruzzelli e la gestione del teatro che lo avrebbe temporaneamente sostituito. Ma l’Enél, a dire il vero, in quegli affari non ci entrò mai, perché alla fine degli anni Novanta aveva già capito il potenziale enorme del riciclaggio e del reinvestimento immobiliare.

Quale sia la mappa delle sue proprietà, ancora oggi la Direzione distrettuale antimafia di Bari lo ignora. Si vocifera che sia ricchissimo ma nel recente decreto di confisca di beni disposta dal Tribunale si fa riferimento a due soli immobili del valore di circa 30mila euro, un Rolex, una Clio da 5mila e denaro sul conto corrente per nemmeno 10mila euro. Nulla rispetto a ciò che avrebbe acquistato negli anni, con il provento dell’altra attività su cui si era buttato una volta messo da parte il narcotraffico. Le sale slot, nell’ultimo decennio, sono diventate la frontiera di affari milionari, gestiti insieme ai tre figli e ad una serie di complici individuati tra i clan di altre regioni italiane. Alla mafia della pistola, Vitino aveva saputo sostituire quella del “click” ovvero del computer, indicando la via per un’evoluzione meno pericolosa e ancora più remunerativa delle attività criminali. Nonostante tutto, i segugi della guardia di finanza, nel 2018, lo avevano stanato nuovamente, facendolo finire in carcere e portando una serie di prove talmente solide da costringerlo a patteggiare la pena. E se da quel processo era uscito con a condanna a poco più di due anni, in una disfatta giudiziaria si è trasformato invece il procedimento ormai datato sul narcotraffico, al termine del quale la riduzione della pena da 15 a 9 anni non basterà a evitargli il carcere.

A meno che, nel frattempo, Vitino (che oggi ha “ripreso servizio” in una tabaccheria del centro cittadino) non decida di fuggire di nuovo, come aveva già fatto per sottrarsi alla notifica dell’ordinanza di custodia cautelare per il rogo del Petruzzelli. Dalla sua ha certamente la possibilità di rifugiarsi in una delle sue proprietà all’estero, di cui si vociferano meraviglie nell’ambiente criminale barese ma a cui gli investigatori, al momento, non sono riusciti a risalire. Proprietà che potrebbero essere intestate a chissà chi, così come le numerose che si suppone abbia acquistato anche a Bari. In una di quelle abitazioni, quando i finanzieri andarono ad arrestarlo tre anni fa, trovarono una serie di quadri che riproducevano opere molto famose. A dimostrazione che Vitino, anche nel campo delle truffe agli appassionati d’arte, era riuscito a dire la sua. A proposito: se volete incontrare Vitino, fate un salto alla Champagnerie, bar del centro Murattiano. E’ possibile che, dopo aver scambiato qualche chiacchiera come ogni mattina con imprenditori, professionisti, vi offra un caffè.

Tonino, il boss

E’ il 30 luglio del 1993. Luciano Violante è il presidente della commissione parlamentare antimafia. Dinanzi a lui siede il collaboratore di giustizia Salvatore Annacondia. Dall’incendio del Teatro Petruzzelli è trascorso poco più di un anno. Il pentito negli anni ’80 è stato il boss indiscusso della malavita del nord barese. Conosce bene gli esponenti della criminalità organizzata barese. Con loro ha avuto rapporti, scambi di affari. Conosce bene pure  Savino Parisi e Antonio Capriati. Capriati, appunto, il boss della città vecchia, che più di Savinuccio, secondo gli investigatori, ha avuto un ruolo nell’incendio del Politeama. La storia processuale dirà poi che il boss di Bari vecchia è innocente, che gli indizi non sono sufficienti. Che il racconto del collaboratore di giustizia non basta. Eppure quando Annacondia parla dinanzi a Violante è un fiume in piena. Rivela dettagli, particolari. Racconti che ha saputo in carcere. “Capriati – fa mette a verbale il pentito – tramite una sua testa di legno, la testa di legno sarebbe il suo cassiere, “tale Vitino, l’Enel” Vito Martiradonna dava i soli in usura per conto di Tonino, stava nel campo dei preziosi, aveva pure una oreficeria sempre a Bari vecchia, era una testa di legno di Tonino, si conosceva con Ferdinando Pinto tramite…Fu avvicinato perché si conoscevano così, non è che si conoscessero intimamente con questo Ferdinando, si conoscevano perché Vitino frequentava il Circolo Tennis di Bari, il Circolo della Vela o il teatro, era una persona che viveva nell’elitè”. Annacondia racconta.

Il boss Tonino Capriati 

Dice che Vito Martiradonna fu coinvolto nel piano del rogo del Petruzzelli. Aggiunge di aver saputo di questa circostanza da Antonio Capriati. “Queste cose poi me le ha spiegate tutte Tonino e io – dice Annacondia –  le ho spiegate tutte, non mi potevo inventare una cosa del genere, presidente, perché ne andava pure della mia credibilità. I fatti erano che bisognava incendiare il Petruzzelli, fare non quell’incendio, ma un incendio che lo doveva rovinare, non distruggere, perché poi bisognava restaurarlo, il Petruzzelli. Non bisognava distruggere il Petruzzelli, ma appiccare dei fuochi che si doveva rovinare”. Perché il boss della città vecchia avrebbe dovuto appiccare l’incendio? La domanda è al centro dell’inchiesta e dei processi che seguono il rogo. Annacondia offre la sua versione dei fatti, lo fa prima dinanzi ai magistrati di Bari. E poi dinanzi alla commissione parlamentare: “I favori che venivano fatti a Tonino erano le garanzie per quanto riguardava i processi Capriati e Parisi. Però Savino Parisi, quando gli sono arrivate le prime notizie, non voleva partecipare; ha detto “Perché dobbiamo bruciare il Petruzzelli?” Perché Savino Parisi è stato sempre un ragazzo che ha voluto stare sempre nel suo regno e non uscire fuori dai fatti suoi. Poi Savino, sotto le insistenze di Tonino, ha accettato: “Va bene”. E venivano sistemati i processi sia di Savino Parisi che di Capriati”. Alle parole di Annacondia, però, non seguono riscontri certi, non secondo i giudici chiamati a pronunciarsi sul rogo. E non quindi secondo la sentenza definitiva che arriva dopo dieci anni di processi. Antonio Capriati, condannato nel primo processo d’appello a sei anni, nel 2007 viene assolto definitivamente.

L’impianto accusatorio sul rogo del Petruzzelli crolla, ma non quello che altre indagini e altri processi fanno del capo del clan di Bari vecchia un boss spietato, sanguinario. Che arriva ad ordinare un omicidio da Padova, dove con alcuni suoi uomini era andato in pellegrinaggio a Sant’Antonio. Dalla sentenza che chiude per sempre il processo sul rogo del Petruzzelli passa un anno. E il dicembre del 2008 arriva per Antonio Capriati la sentenza più dura: il carcere a vita. Nel processo Dolmen, uno dei più imponenti mai istruiti in Puglia che porta sul banco degli imputati gli uomini della mala del nord barese, il boss di Bari vecchia viene condannato all’ergastolo. Fine pena mai, c’è scritto nella storia di Capriati. Classe ’57, nato e cresciuto nel borgo antico, sta scontando la sua condanna nel carcere di Sulmona. Carcere che, dal giorno della sua detenzione, ha lasciato solo per una volta, per un permesso  per gravi motivi familiari che lo ha portato laddove tutto è cominciato, nella città vecchia. Ma di Antonio Capriati, del suo ruolo, e soprattutto del clan che ha retto continuano a parlare le carte giudiziarie. Come l’ultima inchiesta quella che nel 2018 ha portato in carcere alcuni esponenti dell’associazione mafiosa. Scrivono, infatti, i giudici della Cassazione: “Il clan dotato di armi  e particolarmente insediato nella Città Vecchia di Bari, aveva in Antonio Capriati  e nel nipote Domenico Capriati, entrambi detenuti, i suoi vertici, oltre a Filippo e  Pietro Capriati, senza che i provvedimenti restrittivi fossero riusciti a disarticolare l’organizzazione, permanentemente caratterizzata da numerosi indici sintomatici costituiti dall’effettuazione dei riti di affiliazione, dall’esistenza della struttura gerarchica, dal controllo del territorio con metodi mafiosi, dall’assistenza agli associati”.  

A proposito: nell’ultima inchiesta che ha portato in galera alcuni estorsori di Bari vecchia, uno dei ragazzini arrestati (aveva 19 anni) diceva a un barbiere: “Io, sono come a Tonino Capriati”.

Michele, l’avvocato

“Io sono quello che, nella testa di qualcuno, impediva che si facesse giustizia: perché la giustizia presuppone sempre un colpevole, e invece in questo caso il colpevole, il mandante dell’incendio, non c’è”. Michele Laforgia ha 59 anni. Oggi è uno dei più importanti penalisti italiani a capo di una società cooperativa fra avvocati, la prima in Italia. E, per dieci anni, è stato difensore di Ferdinando Pinto nel processo sull’incendio del teatro Petruzzelli. Quando tutti erano contro Pinto, Laforgia difendeva Pinto.

Torna con la mente e la memoria, come se fosse ieri, a quel mattino del 27 ottobre 1991 quando, sullo schermo del televisore vide scorrere, incredulo, le immagini del teatro distrutto dalle fiamme.

Michele Laforgia 

Non aveva ancora 30 anni, lavorava nello studio con il padre – che poco dopo diventò prima Sindaco di Bari e poi Senatore del PdS, lasciando l’attività professionale nelle mani del figlio – frequentava il Petruzzelli da spettatore e appassionato di teatro. “Con quell’incendio era andato in fumo un teatro europeo in una città che di europeo, nel 1991, non aveva nulla”. E da spettatore ha vissuto tutta la prima fase della vicenda giudiziaria, il “clamoroso” arresto di Pinto nel luglio del 1993, segnato dal rivoluzionario e suggestivo teorema secondo cui la “Bari da bere” a trazione socialista da un lato, e la criminalità organizzata dall’altro, si fossero alleate per bruciare il simbolo della città e lucrare sull’assicurazione e la ricostruzione. Una brutta storia di usura, secondo le accuse, maturata per i debiti di un teatro privato che costava troppo. “Diventò una battaglia politica, dopo Mani Pulite: bisognava risolvere i problemi della città con uno scatto, liberarsi per via giudiziaria del malaffare, chissà perché identificato in un teatro che non generava ricchezza, ma cultura”.

Tutto cambia nell’estate 1995. Di Ferdinando Pinto, rinviato a giudizio, Michele Laforgia diventa l’avvocato difensore, insieme a un gentiluomo del Foro, Michele De Pascale. Non è più solo un incredulo spettatore. “Mi portano decine e decine di faldoni, passo l’estate a leggere la storia del Petruzzelli. Un giorno, a pranzo, dico a mio padre che devo difendere Pinto. Per la prima e unica volta in vita mia, mi guarda spaventato. Sapeva che non sarebbe stato un processo normale. Mio padre muore improvvisamente nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 1995, e io mi ritrovo da solo, in

studio e nella vita”. In 120 udienze del processo di primo grado e 50 milioni di pagine di atti, ci sono tutti gli ingredienti della sceneggiatura di un’opera teatrale, se non di un melodramma: centinaia di testimoni; il collaboratore di giustizia chiave, Salvatore Annacondia, “trattato come una star”; il veneficio in carcere di chi avrebbe potuto rilevare “la verità inconfessabile” del presunto accordo tra Pinto e la mafia; il borbottio in cella del boss Tonino Capriati; le telefonate anonime nello studio legale e puntatori laser che compaiono, di notte, sulla finestra di casa; l’interrogatorio “inquietante”, in ospedale a Catania, di Pierpaolo Stefanelli, il musicologo malato

terminale di Aids, morto alcuni giorni dopo, accusato da un cartomante informatore dei carabinieri di avere incendiato il teatro e trasformato, nelle mani dello stesso cartomante, che lo va a interrogare in ospedale accompagnato dai Pubblici Ministeri e dagli ufficiali del ROS, un riscontro alle accuse di Annacondia. “Mi è capitato recentemente di risentire alcune udienze su Radio Radicale perché dubito io stesso che certe cose siano realmente accadute”. Invece sono accadute. In primo e secondo grado Pinto viene condannato a furor di popolo e Michele Laforgia, da sempre impegnato a sinistra, è ormai trattato come “un berlusconiano”, per aver assunto la difesa di un imputato “politicamente indifendibile”. Si dovrà attendere l’annullamento con rinvio della Cassazione e l’appello bis, nel 2005, per smontare quel castello di accuse costruite su dichiarazioni non credibili e su una teoria improbabile.

“Non mi sono mai sentito vincente, perché questa è la storia di una sconfitta. Durante il processo, tutti dicevano che senza la verità sull’incendio la città non avrebbe potuto andare avanti. Dopo l’assoluzione di Pinto della verità non si è occupato più nessuno. Da allora dell’incendio e del processo non si è più parlato”. Ancora oggi, cosa sia accaduto quella notte e perché resta un mistero. Ammette di aver avuto “un po’ di difficoltà ad entrare nel teatro restaurato. Quando ci sono tornato mi ha fatto impressione”.

Ma questa storia, che “ha occupato militarmente dieci anni della mia vita, non solo professionale”, in qualche modo ne ha anche condizionato il corso. “Non so se abbia giovato alla mia carriera professionale, sicuramente mi ha insegnato buona parte di quello che so. Soprattutto, a mantenere, sempre, la schiena dritta”.

Oggi Michele Laforgia fa l’avvocato come allora. Per lui “teatro Petruzzelli di Bari” evoca ancora quelle 2.662 pagine della sentenza di condanna di primo grado da leggere, studiare e impugnare in 45 giorni, diventati 90 grazie alla sospensione feriale. Tre mesi estivi per scrivere un appello di mille pagine. “Se non avessi attraversato questa storia, sarei un altro tipo di professionista, forse anche un’altra persona. Il processo per l’incendio è stato una prova di resistenza, in solitudine quasi assoluta. Quei dieci anni di notti insonni e giornate intere in aula, anche il 23 dicembre, non li ho potuti condividere con nessuno, e forse questo ha condizionato la mia vita più di quanto potessi immaginare. La reazione a tutto questo è stata fare dello studio la mia famiglia, costruire uno spazio vitale intorno a me che non fosse solo di lavoro, ma anche di affetto, di sostegno, una casa. All’epoca ero solo, in studio, oggi siamo più di quaranta. È giusto così”.

Ferdinando, il gestore

“Alla fine, cosa mi resta? Mi resta che ci siamo divertiti. Quanto ci siamo divertiti”.

Ferdinando Pinto è come trent’anni fa. Non ha perso entusiasmo e quella vena da grandeur colto – simpatico, cialtrone, visionario – che gli permise di fare grande un teatro. E la sua città. “Io sono nato in un teatro, vivevamo in un appartamento al Margherita. Che altro potevo fare?”. Sorride. Parla al futuro, racconta di progetti grandi, di cui giura al momento non si può parlare, ma non smette di pensare a quello che è stato: la Città di Federico, Liza Minelli, i tre tenori, il suo teatro.

Ferdinando Pinto 

Siccome Pinto non si può filtrare, perché non lo si è mai potuto fare in questi trent’anni, va preso per quello che è. Per quello che dice. Questo:

“Ho appena finito la bellissimo intervista che Guido Pagliaro ha rilasciato a Repubblica. Ho riso. Perché? Guido ricorda quando con Maurice Bejart immaginavamo di portare il Balletto del XX secolo da Bruxelles a Bari. E io mi ricordo quando andai da un assessore dell’epoca. E quello mi disse: e ci cazz jè Bejart? Lo abbracciai… Lo abbracciai perché un momento dopo era pronto a farlo venire. Perché il teatro, quell’anno, era una rappresentazione fedele dei baresi: curiosi, un po’ spacconi, gente che girava il mondo, che guardava e voleva rifare, rivedere senza alcuna paura. Senza alcun senso di inferiorità. Per questo fu possibile pensare un teatro con Eduardo e Carmelo Bene, Nureyev e Pina Baush, Liza Minelli e Domenico Modugno. Ho sempre pensato: dove saremmo potuti arrivare? Con Guido eravamo andati a San Pietroburgo a convincere quelli del teatro a fare di Bari la loro succursale del Mediterraneo. Il balletto, l’opera. Vennero, era fatta. Poi guardarono l’aeroporto e sorrisero, quasi si scusarono: c’erano due voli al giorno, come potevano venire a Bari?

Ora che Bari è diventata partenza ma anche arrivo è il mio cerchio che si chiude. Certo, è un cerchio che mi ha fatto soffrire. L’accusa di aver bruciato il mio teatro, dunque la mia vita, è stata un’accusa che mi ha fatto soffrire. Non lo nego. Seppur non ho mai avuto alcun dubbio che sarebbe finita con la verità. Ricordo le udienze, non ne ho mai persa una. Le seguivo come fossero uno spettacolo teatrale, mi sembravano maschere che recitavano una commedia, tutto così incredibile, tutto così assurdo. Ogni tanto guardavo l’avvocato Laforgia, il mio grande avvocato, e citavo un libretto, una battuta. Mi dava i calci da sotto il banco per farmi stare zitto”.

A proposito di battute, Gianni Ciardo ne ha scolpita una:

“Sono andato a casa di Ferdinando Pinto, per Natale. Ha detto alla moglie: “Accendi l’albero”. E io gliel’ho detto: “E allora è vizio”.

“Me ne hanno dette tante. Ma io non porto rancore, non coltivo alcuna rabbia. Evidentemente doveva andare così. Mi dispiace soltanto per quei 18 anni senza teatro. Avrebbero potuto essere pochi mesi. E’ una cosa che non ho mai capito, perché la famiglia non volle ricostruire subito e poi, invece, hanno perso tutto. Io arrivai davanti al teatro dopo pochi minuti con l’avvocato Giannattasio, persona straordinaria. Lo guardammo e ci mettemmo a piangere. Non potevamo fare altro. Poche ore dopo mi arrivò una telefonata di un mio grandissimo amico, di un grande amico del teatro, Enzo Romagnoli, allora presidente di Acqua Marcia. La società era pronta a mettere subito sul tavolo 25 miliardi. Venticinque miliardi! La famiglia disse, no grazie. E disse “no grazie” ai tre tenori: Luciano Pavarotti, Placido Domingo e Jose Carreras. Erano pronti a tenere un concerto, in qualsiasi parte del mondo, per il Petruzzelli. Il ricavato alla ricostruzione. E loro: no. In questi trent’anni, è una risposta che non ho ancora trovato. Perché? Chi li consigliava?”.

Ferdinando Pinto, i suoi baffi, è la sintesi di quella Bari degli anni ’80, Bettino Craxi, le cene alla Pignata e ai 2 Ghiottoni, la mafia che prende la città mentre la città stappa bottiglie di vino milionario.

“Io sono felice, oggi, di vedere Bari felice. Risoluta. Bari che attrae, piace. Io so quanto sa essere bastarda, quanto sia in grado di voltarti le spalle, dopo averti chiesto tutto. Ma so anche che sa abbracciare e riabbracciare come nessuno. Questo fermento credo sia figlio anche della sofferenza di quei 20 anni senza il suo teatro. La città ha accumulato fantasia. Ora sta dando sfogo. Però…”.

Però? “Io al Petruzzelli non ci riesco a tornare. Non l’ho più rivisto, ci passo tutte le volte che torno a Bari, mi fermo a prendere un caffè, ma non riesco a mettere il naso dall’altra parte della scena. L’ultima volta che l’ho visto con le porte aperte c’erano le fiamme, io ero con l’avvocato Giannattasio, una persona straordinaria. E piangemmo. Una settimana dopo, ero lì davanti, e si fermò un ragazzo con il motorino.

“Ma tu si Ferdinando Pinto?”

“Sì”. Pensavo mi volesse menare. E invece…

“Ti volevo ringraziare. Io al teatro non ci sono mai entrato. Però ero felice che ci fosse”.

Ecco, ora, sono felice anche io”.

 

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