“Tangente da 350mila euro”: un’altra inchiesta sull’ex pm Savasta

Una tangente da 350mila euro chiesta a un imprenditore di Barletta per evitargli guai giudiziari: ruota attorno a questa ipotesi una nuova inchiesta della Procura di Lecce che coinvolge l’ex pm di Trani Antonio Savasta, già condannato per corruzione in atti giudiziari a 10 anni e agli arresti domiciliari da due anni. Il grande accusatore questa volta non si chiama Flavio D’Introno ma Giuseppe Di Miccoli, titolare di una serie di aziende che producevano abbigliamento e che dell’ex magistrato era stato socio nella masseria San Felice di Bisceglie. Di Miccoli in dieci anni ha inondato la Procura di Lecce e il Csm di esposti, nei quali rivelava l’esistenza di legami tra magistrati in servizio negli uffici giudiziari di Trani, avvocati, professionisti e anche esponenti delle forze dell’ordine. Dalle denunce erano nati processi, uno solo dei quali concluso con condanna di Savasta a due mesi per falso, gli altri finiti con assoluzioni o archiviazioni.

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Adesso, però, è come se il nastro venisse riavvolto, perché la pm Roberta Licci ha ripreso in mano una di quelle denunce e chiuso l’inchiesta su Antonio Savasta, l’avvocato barese Dimitri Russo e l’intermediario barlettano Raffaele Ziri, accusandoli di tentata concussione. La storia è delle più complicate e affonda le radici nell’istanza di fallimento presentata da Ziri nei confronti del Maglificio Kappao di Di Miccoli, a causa di un credito non pagato. Un’istanza che – secondo la Procura – era finalizzata a danneggiare l’imprenditore, su sollecitazione di Savasta, che all’epoca era già stato denunciato per le questioni della masseria San Felice. Ziri, dal canto suo, aveva venduto un appartamento in un complesso turistico al fratello di Savasta, Maurizio.

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E, successivamente, presentato una denuncia penale contro Di Miccoli, sulla base di informazioni riservate, relative a una transazione in corso con la Gattinoni, che lo stesso Ziri aveva appreso dall’avvocato Russo, all’epoca difensore di Di Miccoli.Anche Russo, stando a quanto contestano gli inquirenti, avrebbe fatto capire al suo cliente che l’unico modo per arginare i possibili guai giudiziari che Savasta poteva scatenargli contro, era arrivare a una transizione sulla vicenda della masseria San Felice oppure pagare 350mila euro. Una sollecitazione che Di Miccoli, lungi dall’accogliere, era andato a riferire parola per parola ai carabinieri di Lecce, portando anche la registrazione di un colloquio con l’avvocato come prova. Una prima inchiesta su tali fatti era stata archiviata ma poi le vicende collegate al “sistema Trani” sono tornate d’attualità dopo gli arresti di Antonio Savasta e Michele Nardi, avvenuti nel gennaio 2019. Sotto il coordinamento del procuratore Leonardo Leone de Castris, la Procura salentina ha riaperto diversi capitoli e verificato che quel sistema di richiesta di tangenti per dirottare indagini e processi – era stato applicato diverse volte. Nel caso di Di Miccoli, in particolare, è emerso che Savasta avrebbe dovuto vendergli la masseria San Felice, poi ceduta al fratello e alla sorella. E se pure l’inchiesta penale sul punto era finita in una bolla di sapone, la giustizia civile ha invece dato ragione all’imprenditore, accogliendo un ricorso della moglie e condannando l’ex magistrato a pagare un risarcimento da 80mila euro.
Altri danni Di Miccoli potrebbe chiederli all’esito di un eventuale processo per tentata concussione. Nel corso delle indagini sono emersi i legami dei familiari di Savasta sia con Ziri che con l’avvocato Russo. Quest’ultimo era infatti socio di Maurizio Savasta (fratello del pm) nella Pro Bono Pacis srl, società di conciliazione. Maurizio Savasta, inoltre, aveva avuto incarichi professionali dalla ditta edile della famiglia Ziri. Sia Ziri che Russo avrebbero svolto il ruolo di mediatori e cercato di convincere Di Miccoli a pagare.
 
 

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