Storia della mafia: il riassunto, dal brigantaggio alle multinazionali del crimine

Non è solo una questione criminale. La mafia è un sistema da 11 miliardi di euro (l’1% del Pil italiano) che coinvolge imprese, istituzioni e comuni cittadini – fonte: Cesare Giuzzi – www.corriere.it
 
«Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia». Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone veniva assassinato da una carica di tritolo piazzata da Cosa Nostra nei pressi di Capaci. Erano le ore 17:57 e con il magistrato morivano la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Quella strage alzò definitivamente il velo sul fenomeno mafioso costringendo istituzioni e pubblici cittadini, in Sicilia come in Italia, a fare i conti con quella “Cosa” che ormai era davvero nostra, di tutto il Paese. A trent’anni di distanza da quella strage nasce questo speciale sulle mafie e chi le combatte per i ragazzi e le ragazze, i loro insegnanti, le famiglie. Abbiamo provato a fornirvi notizie, approfondimenti e strumenti da utilizzare per creare una o più lezioni a scuola su un tema che ognuno deve sentire proprio. Perché «gli uomini passano, le idee restano», e servono nuove gambe per farle camminare.
Non è solo un insieme di criminali. La mafia è qualcosa che soffoca, che toglie il respiro. Che controlla le vite, che elimina la libertà. Che decide la morte. La mafia è obbedienza, omertà, fedeltà. È violenza, ma non necessariamente. La mafia è spesso subdola complicità, convenienza, scorciatoia. No, la mafia non è del Sud né del Nord. La mafia, nella sua essenza, è un diritto che diventa un favore.

Le origini «mitiche» della mafia…
L’hanno chiamata in molti modi: maffia, con due effe, onorata società, picciotteria, camorra, cosa nostra, società dei malfattori, ‘ndrangheta. L’Italia fa i conti con la mafia dal 1860, dai tempi della sua unità. La sua nascita è circondata da miti e leggende. Una, la principale, è quella dei tre cavalieri arrivati dalla Spagna, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che hanno fondato poi le tre organizzazioni in Sicilia, Calabria e Campania. Il mito dei cavalieri s’è trasmesso nel tempo attraverso formule, riti, giuramenti. In altri scritti si parla di Mazzini, Garibaldi e perfino di santi e arcangeli.

… e quelle reali

Ma è probabilmente nelle carceri della bellissima isola di Favignana, al largo di Trapani, che avviene in quegli anni l’incontro tra briganti e membri della massoneria, delle sette segrete, da cui le mafie hanno ricavato i loro codici di affiliazione. Perché tra le caratteristiche fondamentali di Cosa nostra, che si sviluppa in Sicilia, ‘Ndrangheta, che prolifera in Calabria, e Camorra, che conquista invece la Campania, non ci sono solo la segretezza e l’obbligo di non pronunciarne neppure il nome (ve la ricordate la «prima regola del fight club»? «Non si parla del fight club»), ma l’appartenenza: si entra giurando fedeltà, pungendosi il dito con uno spillo o incidendosi la mano con un coltello davanti a un santino che poi viene bruciato. Si accede alla mafia con il «battesimo», come chiamano il rito di affiliazione, e per tutta la vita. Si esce solo con la morte o con il «pentimento», la collaborazione con la giustizia, quindi infrangendo il vincolo della segretezza e dell’omertà. Diventare «infami» come li chiamano i mafiosi.

I collaboratori di giustizia: da «pazzi» a fondamentali

Se oggi conosciamo come queste organizzazioni sono strutturate, come si dividono il territorio, come si entra a farne parte e quali siano i nomi dei boss, lo dobbiamo soprattutto ai collaboratori di giustizia. C’è stato un tempo in cui i pentiti di mafia venivano definiti pazzi. Non dai mafiosi, ma dalla giustizia. Avremmo potuto scoprire moltissime cose, e molti decenni prima, se avessimo creduto ad esempio ai racconti di Leonardo Vitale, mafioso palermitano che nei primi anni Settanta fece i nomi di Totò Riina e del politico Vito Ciancimino, svelando anche la struttura della Commissione provinciale di Cosa nostra. Avremmo, se solo i giudici gli avessero creduto anziché sbatterlo in manicomio. Ospedale psichiatrico dal quale uscì solo dopo sette anni, prima di essere ammazzato all’uscita da messa. Ci sarebbe voluto poi un «pentito» come Tommaso Buscetta e lo straordinario lavoro del pool antimafia di Palermo, ideato dal magistrato Rocco Chinnici (ucciso nel 1983 facendo esplodere un’autobomba) con i giudici istruttori Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, per recuperare quelle straordinarie conoscenze sul fenomeno mafioso a lungo ignorate.

Il ruolo delle istituzioni

Nei quasi due secoli di storia le mafie hanno ucciso un’infinità di magistrati, poliziotti, carabinieri, fatto sparire testimoni e oppositori, giornalisti, chiunque si mettesse sulla loro strada. E il loro sacrificio è stato enorme. Ma è solo grazie alle complicità di cui le mafie hanno goduto e godono nelle istituzioni, nello Stato, nelle aziende pubbliche e private, nelle banche e in tutti i settori produttivi, se oggi si stima che l’1% del prodotto interno lordo nazionale, qualcosa come 11 miliari di euro sia direttamente nelle loro mani (fonte: Università Cattolica di Milano).

Le aziende e le persone «comuni»

Poi c’è l’indotto, quell’insieme di imprese e affari che «godono» della presenza, dell’aiuto e della complicità delle mafie: pensiamo al settore dell’ortofrutta, del facchinaggio, delle pulizie, dell’edilizia. Le mafie, insomma, non sarebbero nulla senza l’aiuto delle persone che, fuori dalle mafie, contribuiscono alla loro crescita. Immaginate un imprenditore che costruisce case grazie a concessioni edilizie ottenute attraverso politici corrotti, comprando cemento dalle aziende mafiose, facendo lavorare i «picciotti», il gradino più basso dell’appartenenza mafiosa (ma anche quello più numeroso). O pensiamo oggi a un commercialista, a un amministratore delegato di un’azienda, a un manager che mettono a disposizione il loro sapere – frutto di anni di studi nelle più importanti università – per riciclare soldi, per aprire società fiduciarie (senza nomi dei soci) nei paradisi fiscali, per gestire locali e ristoranti.

La ‘ndrangheta, un’impresa multinazionale

La mafia è soprattutto impresa. Al Nord la ‘ndrangheta ha riprodotto alla perfezione la sua struttura in «cellule» chiamate locali, una sorta di franchising criminale la cui testa però rimane sulle pendici d’Aspromonte. Paesi minuscoli come San Luca, Platì, Africo, in provincia di Reggio Calabria, in continuo collegamento con Milano, Torino, Reggio Emilia, Como, Varese. Ma anche con Stati Uniti, Germania, Canada, Australia. Ogni affiliato ha doti specifiche: contrasto onorato, picciotto, trequartino, camorrista, padrino, sgarrista. Un modello che è diventato intercontinentale unendo regole arcaiche e modernità. E che in questi ultimi anni è diventato un brand, un marchio di qualità e affidabilità criminale che consente alle cosche calabresi di acquistare cocaina direttamente in Sudamerica «a credito», pagando la merce solamente dopo la consegna. La ‘ndrangheta negli ultimi trent’anni ha superato, per affari e livello di penetrazione sul territorio, Cosa nostra.

Cosa nostra dopo Falcone

Mafia siciliana che però non è morta, anzi. Dopo gli attentati a Falcone e Borsellino che innescarono una «reazione» non solo da parte dello Stato ma anche dai cittadini che non si era mai vista prima, l’organizzazione siciliana s’è fatta più silente: spara meno e soprattutto non cerca più di «sovvertire» lo Stato. Scende a patti con le istituzioni raggiungendo lo stesso scopo ma attirando molte meno «attenzioni». La stessa strategia adottata dalla ‘ndrangheta che invece mai si mise in contrapposizione allo Stato ma cercò, fin dagli anni Sessanta, di penetrare le istituzioni, di agganciare le pedine chiave della politica e dell’imprenditoria.

La Sicilia, gli americani e il «sacco di Palermo»

In questi anni sono stati arrestati e condannati poliziotti, carabinieri e finanzieri infedeli, ma anche politici e magistrati. Lo studioso Rocco Sciarrone ha definito queste figure che si mettono a disposizione dei clan come il «capitale sociale» delle mafie. Senza il quale, come abbiamo visto, avremmo a che fare solo con un fenomeno criminale. Era così anche in Sicilia, prima dell’avvento negli anni Settanta e Ottanta dei corleonesi di Totò Riina, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, i boss che invece attaccarono frontalmente lo Stato con attentati e bombe.
Negli anni della Seconda guerra mondiale, quando gli angloamericani sbarcarono in Sicilia, i generali alleati presero accordi direttamente con i capi mafia per non avere «ostilità» nella risalita lungo la penisola. In cambio diedero poi il riconoscimento ai boss nominandoli sindaci e amministratori. Negli anni Sessanta la mafia palermitana era già così forte da riuscire in una sola notte a far emettere all’assessore ai lavori pubblici Vito Ciancimino oltre quattromila licenze edilizie, 1.600 intestate a prestanome o nullatenenti, per costruire migliaia di metri cubi di palazzine dove c’erano le ville liberty. Lo hanno chiamato il «sacco di Palermo». Segno che già 80 anni fa la mafia non era solo estorsioni, droga, omicidi ma aveva penetrato il tessuto imprenditoriale puntando al potere e alla ricchezza di pochi tenendo il resto della popolazioni in condizioni di indigenza e povertà.

Calabria, dai pastori a imprenditori

Lo stesso è successo in Calabria dove inizialmente la ‘ndrangheta, considerata solo una mafia di pastori, ha goduto di una forte sottovalutazione. Ma già nella metà degli anni Settanta, con la «prima guerra di ‘ndrangheta», quando ci fu lo scontro tra i vecchi e i nuovi boss, alla base del contendere c’erano i soldi per la costruzione del porto di Gioia Tauro, del Quinto centro siderurgico, dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. I boss «vincenti» aprirono imprese edili e centri di produzione del calcestruzzo per accaparrarsi poi gli appalti. In quegli anni nasce la «Santa», un livello segreto della ‘ndrangheta a cui avevano accesso anche imprenditori e uomini dello Stato. Con la «Seconda guerra», negli anni Novanta, ci fu poi la scalata delle attuali famiglie ai vertici, costata più di 600 morti. Erano gli anni del grande traffico di cocaina che segnò la fine dei sequestri di persona.

La Camorra e la sua struttura «fluida»

La Camorra ha invece avuto sempre una struttura più fluida, più legata al controllo del territorio, ma attraverso boss come Raffaele Cutolo o la famiglia Nuvoletta e i Casalesi ha ripercorso lo stesso processo da criminale a imprenditoriale. Mentre la sacra corona unita, mafia pugliese, è nata molti anni dopo da una «gemma» di ‘ndrangheta e camorra.

Nessun codice d’onore

L’immagine stereotipata del cinema e delle serie tv sulla mafia racconta da anni molte bugie sulle organizzazioni. Proprio le menzogne e le sottovalutazioni hanno permesso alle mafie di crescere e proliferare. Non è vero che i mafiosi hanno un «codice etico», che non uccidono donne e bambini. Il caso del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito nel ‘93, ucciso due anni dopo e sciolto nell’acido per punire il padre Santino diventato pentito ne è un esempio. La ‘ndrangheta rapì diversi bambini, alcuni dei quali non tornarono mai a casa, e uccise moltissime vittime «collaterali». È incredibile quante cose in questi anni abbiamo fatto finta di non sapere sulle mafie. Negli anni Settanta, Ottanta e nella prima metà dei Novanta, ad esempio, a Milano ci sono stati più di 100 omicidi all’anno. Molti furono commessi in scontri tra clan mafiosi. Oggi la media non supera i 20-23 e quasi nessuno rientra in dinamiche di crimine organizzato. In quegli anni la città era molto meno sicura di oggi. Eppure è dal 1999 che la politica grida all’allarme sicurezza, ma contro le mafie continuiamo a non impiegare il massimo sforzo dello Stato.

La gestione del denaro

Oggi i boss hanno ricchezze sconfinate grazie al traffico di droga. Un chilo di cocaina si compra in Colombia a meno di 1.500 euro e si rivende a Milano a 35 mila euro. Poi da ogni chilo se ne possono ricavare altri sei grazie alle sostanze da taglio. Questi soldi però sono «sporchi» devono essere «ripuliti» per giustificare ricchezze, ville e un alto tenore di vita. Così si comprano bar, imprese, ristoranti, discoteche. I boss hanno la necessità di giustificare guadagni che già possiedono, sono ben felici di pagare fatture e battere gli scontrini anche se nei loro locali non entra nessuno. Un giovane boss della potentissima famiglia De Stefano di Reggio Calabria, Giorgetto, 41 anni, è stato arrestato due anni fa a Milano. Aveva interessi in un ristorante molto noto tra subrette e movida. Era anche finito sulle riviste di gossip con il soprannome di «Malefix» per il suo fidanzamento con una influencer.

Sono come noi

I mafiosi non hanno coppola e lupara, ma sono del tutto identici a noi. Per vivere hanno bisogno di confondersi, di trovare consenso sociale nascondendo (anche se non del tutto) l’anima più violenta. Non è vero che i mafiosi studiano nelle migliori università del mondo o che spostano milioni di euro solo con un click. Per farlo utilizzano professionisti a loro disposizione. Ma è vero che i giovani mafiosi sono sui social, cercano lavori «normali» per celare la loro immagine, frequentano i nostri stessi locali. Lo fanno per confonderci, per ingannarci, riuscendo così ancora una volta a «distrarci», a farci gridare ad altri nemici. Internet, i media, il lavoro dei giornalisti ci consentono di conoscere molto sulle organizzazioni mafiose. Sappiamo i nomi di chi «comanda» e in quale «zona». Molte famiglie hanno addirittura pagine dedicate su Wikipedia. Abbiamo un patrimonio incredibile di informazioni, come mai avvenuto in passato. Sarebbe inaudito oggi disperdere questa enorme possibilità di sconfiggere, finalmente, le mafie attraverso la conoscenza. Mettendo così fine al loro grande inganno.

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