Per uno dei mafiosi che pretese, con pesanti minacce, l’assunzione di un sodale come guardiano, il boss Cosimo Di Cosola, 49enne fratello dell’ex capo clan “pentito” Antonio, è arrivato il momento della resa dei conti. Con la sentenza di condanna definitiva a 9 anni e 6 mesi di reclusione, per Di Cosola è scattato un nuovo ordine di carcerazione, che però gli è stato notificato in cella perché il boss era già detenuto.
Oltre Di Cosola, i carabinieri hanno eseguito altri due ordini di carcerazione per l’esecuzione di altrettante condanne diventate definitive nello stesso processo: Vito Mariani (condannato a 7 anni e 8 mesi, che era libero) e Francesco De Caro (condannato a 8 anni di reclusione).
Il procedimento è quello cosiddetto “Pilastro“, nel quale a una settantina di affiliati al clan, la direzione distrettuale antimafia di Bari contestava i reati di associazione mafiosa, traffico di droga con l’aggravante mafiosa, estorsioni a commercianti e a costruttori ai quali il gruppo criminale ha imposto per anni l’acquisto di cemento scadente da un’azienda amica (di qui il nome dell’operazione).
In particolare imponevano agli imprenditori edili il pizzo “per mantenere i detenuti del clan“, oppure pretendevano che acquistassero il calcestruzzo per i cantieri da un fornitore “consigliato” dal gruppo mafioso. Nel caso del cantiere ad Adelfia, in provincia di Bari, della azienda Debar dove la ditta Di Venere Nicola aveva preso in subappalto i lavori di scavo, il clan aveva imposto l’assunzione di un guardiano “amico” e aveva tentato di ottenere un “pizzo” mensile di 500 euro, “a titolo di caffè“, ottenendo poi in effetti 300 euro come “protezione”.
“Avvalendosi della forza intimidatrice del gruppo, oltre che della capacità di controllo del territorio e della possibilità di contare sull’omertà delle vittime e dell’ambiente in genere – si legge nell’imputazione – , con reiterate minacce esplicite e implicite rivolte al titolare della ditta che effettuava in subappalto gli scavi presso il cantiere edile della Debar Costruzioni, ottenevano che costui si attivasse per far assumere come guardiano del cantiere un esponente di spicco del clan, con pagamento delle relative spettanze“.
L’inchiesta, nel 2015, portò all’arresto di 64 persone e quasi tutti, tra rito abbreviato e dibattimento, sono stati condannati con sentenze ormai passate in giudicato. Nei confronti di 21 imputati, tra i quali il boss Cosimo Di Cosola, si erano costituiti come parti civili l’Ance Bari e Bari e le due società vittime delle estorsioni, difese dagli avvocati Michele Laforgia e Andrea Di Comite (Polis). Per loro i giudici hanno disposto il risarcimento danni da quantificarsi in sede civile.
“Le condotte del sodalizio criminale e i singoli delitti di estorsione – è un passaggio dell’atto di costituzione di parte civile dell’Ance – sono state costantemente dirette nei confronti del comparto delle costruzioni nel suo complesso e dei cantieri edili in particolare, provocando una sistematica, illecita alterazione dei meccanismi di funzionamento del settore ed inevitabile pregiudizio per le imprese, e hanno causato un gravissimo nocumento alla compagine imprenditoriale e ai valori, in primo luogo di legalità, che informano il comparto edile nel suo complesso e, nello specifico, le iniziative imprenditoriali riferibili alle aziende aderenti a Confindustria e all’Ance“.