E’ morto Totò Riina, il ‘capo dei capi’. Il boss mafioso da 24 anni era al 41 bis

fonte: http://www.repubblica.it – di SALVO PALAZZOLO

Alle 3,37 Totò Riina ha smesso di vivere, non è sopravvissuto agli ultimi due interventi e a cinque giorni di coma. Era ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale Maggiore di Parma, in regime di 41 bis (il carcere duro per i reclusi più pericolosi) ormai da 24 anni. E’ stata disposta l’autopsia “trattandosi di un decesso avvenuto in ambiente carcerario e che quindi richiede completezza di accertamenti, a garanzia di tutti”, spiega il procuratore di Parma, Antonio Rustico.

I familiari non sono riusciti a incontrarlo prima che morisse, nonostante il permesso straordinario ricevuto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando che ieri, viste le condizioni del detenuto, aveva autorizzato la visita. Secondo indiscrezioni, la figlia minore del boss è rimasta a Corleone. Riina aveva quattro figli: uno è detenuto e sta scontando l’ergastolo per quattro omicidi, mentre il minore, dopo una condanna a otto anni per mafia, è sorvegliato speciale. La più piccola delle due figlie femmine vive a Corleone, la maggiore invece si è trasferita da anni in Puglia.

Sulla sua pagina Facebook la figlia di Totò Riina, Maria Concetta, sembra lanciare un messaggio che poi è un’indicazione, data subito dopo la morte del padrino. La foto del profilo è una rosa nera, sovrastata dal volto di una donna che emerge da un sfondo scuro e un dito che “taglia” la bocca con su scritto “shhh”, silenzio.

Riina si è portato per sempre nella tomba i suoi segreti. “Ne dovrebbero nascere mille l’anno come Totò Riina”, ripeteva in carcere al suo compagno dell’ora d’aria, il boss pugliese Alberto Lorusso. Tre anni fa. E poi si vantava della morte di Giovanni Falcone: “Gli ho fatto fare la fine del tonno”.

• IL ‘CAPO DEI CAPI’ E LA GUIDA DAL CARCERE
La stessa fine che invocava per il pm Nino Di Matteo: “Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono”. Come sempre, manie di grandezza mafiosa, ma non solo. Il capo dei capi della mafia siciliana ha sempre perseguito una lucida strategia in carcere, quasi un’ossessione: ribadire il ruolo che ha svolto nell’Italia degli ultimi quarantanni e allontanare l’idea che sia stato un pupo, un burattino nelle mani di forze occulte annidate dentro lo Stato.

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“Sono diventato una cosa immensa, sono diventato un re – sussurrava a Lorusso – se mi dicevano un giorno che dovevo arrivare a comandare la storia… sono stato importante”. Lui e solo lui, Totò Riina.  E, allora, anche la trattativa con uomini dello Stato, di cui parlò per la prima volta ai magistrati il suo pupillo Giovanni Brusca nel 1996, gli stava stretta. Lo disse chiaramente Riina agli agenti della polizia penitenziaria, mentre stava per essere portato nella saletta delle videoconferenze per assistere al processo di Palermo, di cui non ha perso un’udienza: “Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”.

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Quella voglia di esternazioni portò i pubblici ministeri di Palermo a disporre le intercettazioni dei colloqui durante l’ora d’aria, per cogliere ancora meglio i pensieri di Riina, che in carcere parlava e straparlava con il compagno di passeggiate (solo all’aperto, mai nella saletta della socialità), davanti ai giudici invece non apriva bocca. Così, microspie e telecamere hanno fatto emergere la vera natura di Cosa nostra. Che pone ancora tanti interrogativi.

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Riina ha confermato quanto Giovanni Falcone ripeteva: ufficialmente, Cosa nostra non prende ordini da forze esterne. Ma qualcuno, in Cosa nostra, ha avuto intense relazioni con uomini della società civile, della politica e delle istituzioni. Relazioni ancora avvolte da tanti, troppi misteri. Lo diceva anche Riina.

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Si vantava dell’omicidio del generale Dalla Chiesa: “Quando ho sentito alla televisione, promosso nuovo prefetto di Palermo, distrugge la mafia… prepariamoci gli ho detto, mettiamo tutti i ferramenti a posto, il benvenuto gli dobbiamo dare”. Ma in un’altra occasione, Riina precisava che Cosa nostra non c’entra niente con le carte scomparse dalla cassaforte del prefetto.

“Io ho fatto sempre l’uomo d’onore, la persona seria”, diceva. E ancora: “Io sono un gran pensante. Io sono orgoglioso di tutto quello che ho fatto”.

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Lo ribadiva anche per Borsellino. Rivendicava la strage nel corso di quelle ultime intercettazioni, ma teneva a precisare: “I servizi segreti gliel’hanno presa l’agenda rossa”. E in un altro passaggio ricordava la risposta data al procuratore di Caltanissetta Sergio Lari durante un interrogatorio in cui gli era stato chiesto di suoi eventuali contatti con i servizi segreti: “Se mi fossi incontrato con questi, non mi chiamerei più Salvatore Riina”.

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Nella “versione di Riina”  lui era sempre il boss duro e puro. Ma poi gettava ombre sui suoi compagni. “Mi spiace prendere certi argomenti – diceva dell’amico di sempre, parlando della stagione delle stragi – questo Binnu Provenzano chi è che gli dice di non fare niente? Qualcuno ci deve essere che glielo dice. Quindi tu collabori con questa gente… a fare il carabiniere”. Negli ultimi tempi, Riina accusava anche i fedelissimi Madonia di rapporti con uomini dello Stato: “Erano confidenti dei servizi segreti”. E pure al pupillo Matteo Messina Denaro dava del “carabiniere”.

Riina ha continuato a essere il mafioso di sempre, ha provato fino all’ultimo a dire tutto e il contrario di tutto. Per non far distinguere la verità, quella che cercano ancora i magistrati. “Bisognerebbe ammazzarli tutti”, diceva lui. “C’è la dittatura assoluta di questa magistratura”. Sono state le sue ultime parole intercettate.

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Adesso, molti dei segreti di Riina li conserva uno dei suoi rampolli, cresciuto accanto a lui durante la stagione delle stragi: il superlatitante Matteo Messina Denaro, ormai diventato un fantasma da quei giorni del 1993.

 

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