Michele Fazio, vittima innocente di mafia a 16 anni: 20 anni fa l’omicidio che cambiò Bari vecchia. “C’era buio, ora qui entra la luce”

Il 12 luglio 2001 dei colpi di pistola come schegge impazzite squarciarono il cuore di Bari vecchia: uno si conficcò nella nuca di Michele Fazio, mentre tornava a casa col sorriso e delle pizze portate a mano dopo aver lavorato al bar – fonte: Antonella Gaeta, Gino Martina, Isabella Maselli, Anna Puricella – bari.repubblica.it

“Pace e libertà, lui era questo”. Per Lella e Pinuccio la colomba sorretta dalla mano modellata da Jean Michel Folon rappresenta alla perfezione l’animo di loro figlio. Venti anni fa colpi di pistola come schegge impazzite squarciarono il cuore di Bari vecchia. Uno si conficcò nella nuca di Michele Fazio, 16 anni ancora da compiere, mentre tornava a casa col sorriso e delle pizze portate a mano dopo aver lavorato al bar.

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Michele aveva incontrato gli amici sul lungomare, ma preferì passare il resto della serata con la famiglia, col papà ferroviere spesso lontano, tornato in quei giorni per riposare. Quei colpi che in un primo momento a mamma Lella erano sembrati dei petardi furono sparati da ragazzini della sua età, armati dalle famiglie criminali dei Capriati e degli Strisciuglio. Assassinarono Michele. Lo lasciarono per terra. Lì, proprio dover ora c’è la scultura dedicatagli dall’artista belga. 

Lella, l’abbiamo vista parlare di lavoro e onestà, dell’inutilità del potere e dei soldi criminali a un 40enne della città vecchia incontrato sotto casa. Pinuccio, i ragazzi di San Girolamo l’attendono, parlerà con loro in un’associazione. A venti anni dal rumore delle pistole siete ancora qui a lottare. 

Pinuccio: “Non sono stati 20 anni di lotta alla criminalità organizzata, perché quella spetta alle forze di polizia e alla magistratura. Ma sono stati venti anni di impegno, per cercare di far capire ai giovani di non entrare nelle mani delle mafie. E per una svolta di Bari vecchia, che a poco a poco ci siamo ripresi. Prima, 20 anni fa, era il quartiere dell’io, della mafia, oggi è del noi, è nostro”. 

Lella: “È come se fosse successo oggi. Michele è ancora con noi, nella nostra anima, nel cuore. Passano gli anni e diventa sempre peggio, quando mi sveglio la mattina e vado a dormire la sera, Michele c’è sempre. E grazie a Pinuccio, che in questi anni ha raccontato di lui ai ragazzi di tutta Italia, tutti lo conoscono. È vero, purtroppo, ho perso lui, ma in questi anni ho trovato tanti Michele, tanti giovani che ci ascoltano e vogliono cambiare vita”. 

Lella e Pinuccio Fazio nei giorni dopo l’omicidio 

 

Come nasce il vostro impegno e desiderio di giustizia? 

Pinuccio: “Nel febbraio 2003, quando le prime indagini sul suo caso furono archiviate. E ancora prima, quando col Comitato di quartiere organizzammo la fiaccolata con centinaia di partecipanti tra i vicoli di Bari vecchia. Dall’archiviazione in poi abbiamo cominciato a camminare con le nostre gambe e ci siamo divisi i compiti. Il mio era quello di bussare alle porte delle istituzioni per far riaprire il caso, mentre Lella alle porte delle famiglie vicine ai gruppi criminali e quelle della gente onesta. Perché Michele non è stato ammazzato solo dai colpi delle mafie ma anche dal muro di omertà. Ma a distanza di anni di quel muro sono rimaste solo le briciole”. 

In 20 anni cosa è cambiato? 

Pinuccio: “Noi ce la stiamo mettendo tutto perché il cambiamento si compia del tutto. Questo un tempo era un quartiere buio, non c’era la luce. Ora è un quartiere illuminato, che illumina gli occhi della gente”. 

Lella: “Amo Bari vecchia e guai chi me la tocca. Vederla piena di turisti in giro mi riempie di gioia. Sono nata qui e rimarrò qui finché il signore mi chiama”. 

La famiglia Fazio in una vecchia foto 

A Michele sarebbe piaciuta oggi? 

Lella: “Moltissimo, anche perché l’adorava. Sarebbe felicissimo di vederla così. Venti anni fa i ragazzini dovevano tornare a casa prima del buio, perché era pericoloso stare in giro, si sparava. Non ho mai temuto di fare i nomi, a sparare erano i Capriati e gli Strisciuglio. Ma loro non comandano niente, chi comanda il quartiere siamo noi, la gente onesta, che lavora. Il quartiere è nostro, loro se lo possono scordare”. 

Che ragazzo era Michele? 

Lella: “Era solare, adorabile. Amava tutti. Non faceva distinzioni. Io era sempre preoccupata, gli dicevo di stare attento quando usciva. Ma lui mi diceva: ‘Mamma, non ti preoccupare, perché questi ragazzi vogliono vivere la vita, ma sono solo nati nelle famiglie sbagliate, che li portano a spacciare, scippare, trattare male il prossimo, a intraprendere una strada che non li porta da nessuna parte’. Per loro c’è solo la morte o il carcere, non la vita. Ma io sono nata qui, li conosco uno per uno, e anche se mi chiamano infame sanno che io sono qui, a dire la verità. Sono loro che devono andar via dal quartiere”.  

Cosa ricorda di quel giorno maledetto? 

Pinuccio: “Michele ci aveva appena avvisati col telefonino che stava tornando, dopo essere passato dal forno dove avevamo ordinato delle pizze per la serata. Usava il telefonino al posto del citofono. Sentimmo una decina di colpi di pistola, ma non potevamo mai immaginare cosa fosse accaduto. Tra tanti, avevano preso Michele e l’avevano ucciso. Ricordo la marea di criminali che si era affollata qui sotto casa, almeno una settantina di persone, c’erano anche bambini piccoli, appena nati. Lui era riverso per terra”. 

Lella: “Il telefonino lo usava anche per far capire a quei criminali che anche lui poteva permetterselo, ma col sudore del lavoro di mio padre, a rate, a 10 mila euro al mese, non con lo spaccio della droga che rovina la vita ad altri ragazzi”. 

È stato difficile far capire che Michele non c’entrava nulla con i due gruppi criminali che si fronteggiarono a colpi di pistola quella sera? 

Pinuccio: “All’inizio pensarono che lui avesse visto qualcosa, che appartenessimo a una di quelle famiglie. I carabinieri quella sera ci perquisirono la casa, ma poi con una telefonata dai superiori furono avvertiti: ‘Siete entrati in casa di persone per bene'”. 

Qual è la vostra soddisfazione più grande in questi 20 anni di impegno nei quali siete diventati un simbolo ed esempio non solo Bari e Bari vecchia? 

“Vedere tante persone e ragazzi cambiare strada, prendere quella giusta. Aver visto tanta gente scegliere da che parte stare. All’inizio molti si erano chiusi nel muro dell’omertà, poi, un po’ alla volta, hanno deciso di stare dalla parte di Pinuccio e Lella. A ciò si aggiungono le migliaia di abbracci ricevuti dai ragazzi di tutta Italia”. 

C’è un sogno di Michele che siete riusciti a realizzare? 

Lella: “Ne aveva tanti ma soprattutto quello di diventare un carabiniere. Non era facile nel contesto di Bari vecchia di 20 anni fa, in una famiglia con quattro figli e tanti sacrifici. Ma quando lo diceva mi riempiva di orgoglio e gioia, in un quartiere a rischio un ragazzo di 15 anni che voleva stare dalla parte della giustizia. ‘C’è tempo – diceva –  andrò a scuola serale ma di giorno devo lavorare per aiutarti e non farti andare in giro a lavorare alle dipendenze delle altre persone, mamma.  Tu devi stare in casa con noi'”. 

Pinuccio: “Sì, questo era il suo sogno”. 

Michele ha avuto giustizia dopo 20 anni? 

Pinuccio: “Non c’è nessuna giustizia al mondo che lo possa far tornare a casa, purtroppo, ma possiamo dire di sì. Dopo quell’archiviazione le indagini furono riaperte e gli assassini furono presi e condannati”. 

 

Lella: “Ci tengo a ringraziare tutti i giornalisti perché anche grazia alla stampa siamo riusciti a fare un percorso di legalità e far riaprire il caso di Michele Fazio”.

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Il processo

Quella dell’omicidio di Michele Fazio è una storia di amicizia, di mafia, di coraggio e di perdono. Una vittima innocente della follia criminale la cui morte, per usare le parole dell’avvocato Michele Laforgia, legale della famiglia Fazio, “ha rappresentato uno spartiacque, ha cambiato la storia della criminalità a Bari e la nostra storia”.

Per quel delitto, commesso la sera del 12 luglio 2001 nel cuore di Bari vecchia, tre persone sono state condannate ormai da anni in via definitiva, tutti all’epoca giovanissimi, uno addirittura minorenne, coetaneo della vittima. La giustizia è arrivata, tra inciampi e attese, e anche quella riparativa, nel gesto più unico che raro dei genitori di Michele, Pinuccio e Lella, che anni dopo hanno accettato di incontrare uno degli assassini del figlio.

Il contesto nel quale matura il delitto è la guerra di mafia all’epoca in corso tra l’emergente clan Strisciuglio di Mimmo La Luna e lo storico gruppo criminale dei Capriati. Sette agguati armati tra i due gruppi, con due morti e otto feriti, precedono quel delitto: il 16enne Michele Fazio si trova sulla traiettoria dei proiettili destinati a uno del clan rivale, durante un inseguimento nelle stradine del borgo antico. Il commando dei giovanissimi sicari ha il compito preciso di vendicare la recente morte di Francesco Capriati. Ma sbaglia bersaglio e uccide un innocente.

Michele in quel momento sta tornando a casa dal lavoro, sono quasi le 23 di una calda serata di piena estate. In mano il lettore cd con la musica di Barry White che gli aveva regalato il fratello. Una telefonata alla mamma per dirle di riscaldare la pizza in forno e poi il buio. Due minuti dopo è agonizzante davanti al portone di casa, sotto gli occhi della madre Lella, ferito mortalmente alla nuca da uno dei sette colpi esplosi da una calibro 7.65.

Per due anni le indagini non portano a identificare con certezza i colpevoli e nel 2003 vengono archiviate. “Neppure la commozione per la morte di un innocente potè agire da controspinta atta a spezzare il giogo dell’omertà per coloro che temevano per la loro incolumità personale” scriverà anni dopo l’allora gup del Tribunale di Bari Antonio Lovecchio nella sentenza che nel 2007 ha condannato in primo grado due dei sicari.

Nel 2004, infatti, la pm antimafia Désirée Digeronimo ottiene la riapertura del caso. Le indagini della Squadra mobile, grazie anche a nuove rivelazioni fatte da collaboratori di giustizia e alla confessione (pur poi ritrattata) del minorenne che aveva fatto parte del commando armato, consentono di dare un nome ai responsabili della morte di Michele: Raffaele Capriati (poi condannato a 17 anni), Francesco Annoscia (14 anni e 4 mesi di reclusione), Leonardo Ungredda, ritenuto esecutore materiale del delitto ma mai giudicato perché ucciso nel 2003 in un agguato sul lungomare e Michele Portoghese, condannato dai giudici minorili a 7 anni e 6 mesi.

Quella di Portoghese, coetaneo e amico d’infanzia della vittima, è una delle figure sulle quali più si soffermano gli atti giudiziari. Michele Fazio era “il migliore amico della sua perduta adolescenza” ricostruisce il gup Lovecchio nella sentenza, “un tempo condivideva con la vittima amicizia, giochi, comitiva ed esperienze, improvvisamente troncati dall’insorgere, nel borgo antico, della guerra” di mafia tra Capriati e Strisciuglio, che “imponeva scelte radicali e di vita”.

E poi c’è la descrizione che il giudice fa della madre di Michele Fazio, Lella: “Non è un’immaginaria eroina tratta da un romanzo – si legge nella sentenza, nella parte dedicata al danno da riconoscere alle parti civili – ma una persona che continua a vivere nello stesso contesto urbano in cui maturò l’omicidio, a quotidiano contatto con le famiglie di coloro che furono vittime predestinate e carnefici ma che, a distanza di anni dalla perdita del figlio impegna, come eroina della normalità e del quotidiano, la sua esistenza alla serena ricerca della verità, organizza manifestazioni all’interno del borgo antico, cerca di demolire l’indifferenza, l’ignavia e l’omertà e non esita a sfidare, nella città vecchia con il coniuge, coloro che con la violenza tentavano di occuparla e di strappare l’anima civile dei residenti”.

“Nu uagnon bun”

Michele Fazio aveva 15 anni, quando è morto. Era nato il 21 settembre 1985, oggi sarebbe stato definito un “millennial”. Aveva tutto l’entusiasmo di un adolescente: usciva con gli amici, e quella sera d’estate del 2001, quando a Bari vecchia faceva caldo, era andato sul lungomare, non troppo distante da casa. Sarebbe tornato in tempo, però, perché aveva una serata importante in famiglia: papà Pinuccio si trovava a Bari per pochi giorni, perché poi sarebbe dovuto tornare a Milano, dove lavorava come ferroviere.

Avrebbero mangiato insieme la pizza, i genitori e i quattro figli, ma dato che Michele aveva fatto intendere che avrebbe tardato la sua gliel’avrebbero lasciata nel forno. Solo che Michele quella pizza non l’ha mangiata mai. A pochi passi dal portone di casa è stato colpito alla nuca da un proiettile vagante.

Un agguato mafioso nel cuore della città, solo che lui non la malavita non c’entrava niente. Vittima delle guerre fra clan, vittima del caso. Aveva un telefonino, Michele Fazio, gliel’aveva comprato a rate suo padre “perché lo desiderava tanto”. Allora non si parlava ancora di smartphone, ma possedere quell’oggetto significava tanto, e Michele sapeva perché lo voleva: “Per dimostrare alla gente cattiva che anche un pezzente poteva avere un telefonino”, ricorda il padre.

Quella sera lo prese dalla tasca per chiamare casa e dire che stava arrivando. Gli aveva risposto la sorella Rachele, 13 anni, mancavano venti minuti alle 23. Poco dopo si udirono gli spari, a casa Fazio si era soliti non affacciarsi quando si sentivano rumori del genere, era pericoloso, ma fu Rachele a sbirciare da una finestra mentre andava in bagno: vide il corpo del fratello riverso per terra, proprio sotto lì sotto. Uno zio che abitava lì vicino lo accompagnò in ospedale, ma non ci fu nulla da fare.

Mamma Lella, intanto, aveva chiamato le forze dell’ordine. Michele moriva, la vita di chi restava cambiava radicalmente nello stesso momento. Nel suo nome e per sempre, perché Michele Fazio è stata una vittima innocente di mafia, e vent’anni dopo i suoi genitori si battono ancora perché la sua memoria resti viva, e sia da esempio a tutti.

Michele Fazio era un bravo ragazzo – “nu uagnon bun”, come urlarono al cielo quella stessa notte i suoi assassini in fuga – Al mattino lavorava in un bar in via Andrea da Bari, la sera studiava all’istituto Vivante. Serviva caffè a personale del Comune, forze dell’ordine e magistrati che lavoravano lì vicino, e coltivava un sogno: diventare carabiniere.

“Cambiava idea ogni volta che si svegliava al mattino – dice suo padre – un giorno voleva diventare giudice, il giorno dopo avvocato, ma il sogno del carabiniere l’ha sempre avuto. Si sentiva importante, e forse con il suo metro e novanta centimetri di altezza chissà, sarebbe davvero diventato un carabiniere”.

Michele è sempre stato dalla parte giusta. Era attento e responsabile, in famiglia e con gli amici, i giochi pericolosi dei suoi coetanei in odore di affari criminali non lo interessavano. Aveva sogni di giustizia, lui, e ora che non c’è più continua a seminarli ovunque.

L’urlo della madre risuona a teatro

Un proiettile viene esploso, ha un nome impresso sopra, un indirizzo, una traiettoria, una vita da tranciare il cui titolare è stato iscritto nel libro nero delle vendette. Reciproche, incrociate tra i clan della città. Un 12 luglio del 2001 che Barivecchia è calda non solo per il sole a picco tutto il giorno sulle chianche, ma anche perché viene messa a cuocere da mesi sulla graticola della malarazza che si fa la guerra, da una parte e dall’altra, quella stessa razza che scippa, minaccia, taglieggia, e spara.

Pinuccio Fazio, ferroviere, ai suoi figli lo ripete sempre di stare attenti quando camminano per i vicoli, devono tenere gli occhi aperti, non devono avvicinarsi alle finestre che non si sa mai. I proiettili volano.

Ed è proprio quel proiettile del 12 luglio del 2001 che sbaglia destinatario e colpisce suo figlio Michele, un bravo ragazzo, lavoratore, con gli occhi come elastici, veloci, allegri, pronti a prendersi il resto della vita che gli tocca. Niente di tutto questo per lui, fine di ogni gioia da ora in poi per i suoi genitori coraggio, Pinuccio e Lella che, ricacciate dentro a forza le lacrime disperate, per certo, zitti da allora non sono stati mai, hanno preso la legge del silenzio e ne hanno fatto brandelli.

Avrebbero parlato sempre e comunque, non avrebbero abbassato gli occhi, non se ne sarebbero andati dal cuore incendiato di Barivecchia, sarebbero rimasti lì a presidio, fino a quando l’assassino di suo figlio fosse venuto fuori a dare piccolo sollievo almeno a quella ferita insanabile, ristoro di giustizia a quella vita giovane spezzata senza ragione.

Una frase mamma Lella ha ripetuto più di tutte “stoc ddò”, sto qua, non mi muovo. Stoc Ddò- Io sto qua è, dunque, diventato il titolo di un monologo scritto dal romanziere e drammaturgo Osvaldo Capraro, aduso a incidere nelle zone criminali con i suoi testi, a scavare nell’animo che incrocia i venti. Andato in scena in anteprima lo scorso anno al teatro Radar di Monopoli, e poi bloccato nel suo tour dal secondo lockdown. Ora è tornato in scena a partire da Brindisi, la città d’origine della interprete, Sara Bevilacqua.

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Per lei non è una pièce come tutte le altre, perché interpreta proprio Lella Fazio, dà corpo alla sua tetragona adamantina resistenza, nei decenni. “Lei mi ha consegnato la storia di suo figlio, una tragedia che alla fine contiene anche il riscatto, lungo vent’ anni della sua vita. È stata proprio lei a darmi il coraggio – racconta- in scena abito la sua pelle, non sento più le fobie, le debolezze di Sara, ma la forza di questa madre che bussava alle case dei mafiosi e gridava che stava là, non se ne andava, che li aspettava e non aveva paura.

Io e Lella siamo ormai come due calamite. È stato così fin da subito, la prima volta che, grazie a Francesco Minervini autore di un libro su Michele, su di loro e su tutta la vicenda, ho potuto incontrarla nella sua casa. Ci siamo sedute al tavolo, ci siamo prese per mano, e Lella ha cominciato a raccontarmi tutto”.

Del resto, proprio una tavola, una sedia, e le lenzuola dietro a sciorinare compongono gli elementi essenziali della scenografia di questo lavoro. Il resto lo fa il fiume di parole emozionato di Sara. Che comincia a raccontare Lella sin dalla sua infanzia, sempre nei vicoli, “quando le porte si tenevano aperte, ed era un paradiso”.

E, poi, l’incontro con Pinuccio, il loro amore vivace, il matrimonio, i figli, Michele che nasce e poi muore così. La linea del cuore che si ferma, la vita che sterza, ma loro decidono di non sprecare quel dolore, di farlo germogliare nel terreno duro di Bari vecchia, contro la mafia, contro la malavita, per salvare gli altri, i figli della loro piccola città nella città, per costruire piano piano una speranza, per dare l’esempio.

Fino ad accogliere, in un abbraccio generoso, e insieme eroico, uno dei responsabili della morte del loro figlio che gli chiede perdono dal carcere, con una lettera. E loro lo perdonano, perché anche lui ha diritto a una seconda occasione, così dicono e si dicono. Perché c’è pure questo nello spettacolo di Sara Bevilacqua, il cuore grande dei Fazio, feriti a morte eppure vivi anche per il loro figlio.  

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