di CHIARA SPAGNOLO – bari.repubblica.it
Si estendono sulle attività turistico-balneari i tentacoli del clan Padovano di Gallipoli. Quella che fino a ieri era solo un’ipotesi oggi è realtà, documentata dall’ordinanza di custodia cautelare che ha fatto finire in carcere quindici affiliati al gruppo della Sacra Corona Unita, al termine dell’operazione “Baia Verde“, condotta dal Ros dei carabinieri. Diversi e molto remunerativi i settori di attività degli uomini del clan, che taglieggiavano titolari di lidi e discoteche, imponevano la guardiania e i servizi di parcheggio e non esitavano a fare pressioni sull’amministrazione comunale, presentandosi persino nell’ufficio del sindaco di Gallipoli, Francesco Errico.
Il gruppo Padovano – smembrato da precedenti operazioni – è risorto come l’Araba Fenice dopo l’omicidio del boss storico Salvatore Padovano, ucciso per volontà del fratello Rosario il 6 settembre 2008. Con “Nino Bomba” nella tomba e Rosario in carcere, le redini del gruppo sarebbero state prese dal figlio del primo, Angelo, 25 anni appena ma capace di ragionare come un boss esperto, consapevole del fatto che per fare affari oggi è necessario stringere sodalizi con gli altri clan e agire in maniera poco eclatante per non attrarre l’attenzione delle forze dell’ordine. Da qui la “collaborazione” con il gruppo di Roberto Parlangeli, operante in parte della città di Lecce, e con quello dei Tornese di Monteroni.
Proprio le ragioni di “opportunità”, addotte dagli imprenditori per giustificare l’utilizzo di alcune ditte più sicure”, secondo gli inquirenti rappresentano un segnale chiaro e preoccupante del grado di pervasività della Nuova Scu, che riesce ad infiltrarsi nel tessuto economico senza grandi sforzi, forte solo del suo passato e dell’ansia degli operatori di lavorare tranquilli. Per mettere le mani su Gallipoli – emerge dall’inchiesta Baia Verde – gli affiliati ai Padovano avevano creato anche una cooperativa “Lu rusciu te lu mare”, dedita alla gestione dei parcheggi. E quando il sindaco Francesco Errico non le aveva consentito di lavorare dove voleva, era partita la campagna intimidatoria. Fatta di parole forti e messaggi affatto velati, che Roberto Parlangeli avrebbe recapitato al primo cittadino per strada e anche nel suo ufficio al Comune. Le accuse, contestate a vario titolo agli indagati, sono associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsioni aggravate dal metodo mafioso e spaccio di stupefacenti.