Il magistrato: «Contro di me prove costruite a tavolino con responsabilità anche della Procura» – fonte: Massimiliano Scagliarini – www.lagazzettadelmezzogiorno.it
Si proclama vittima di macchinazioni. E accusa i giudici che lo hanno condannato a 16 anni e 9 mesi di non aver voluto vedere le numerose incongruenze a suo dire emerse nell’indagine sulla giustizia truccata a Trani. L’ex gip Michele Nardi, da poco tornato libero dopo oltre due anni tra carcere e domiciliari, ha presentato appello contro la sentenza dello scorso novembre: 757 pagine (firmate dall’avvocato Domenico Mariani del foro di Cosenza) che accusano senza mezzi termini la Procura e il Tribunale di Lecce di aver costruito testimoni e di aver creduto a circostanze palesemente false.
Nel mirino finisce ovviamente Flavio D’Introno, il testimone chiave, definito «bugiardo seriale» e accusato a sua volta da Nardi di aver inventato gran parte delle ancora presunte tangenti, oltre che di aver «istruito» numerosi testimoni. L’ex gip chiede alla Corte d’appello di dichiarare inutilizzabili i colloqui del 2018 tra l’imprenditore di Corato e l’ex pm Antonio Savasta (anche lui condannato, in abbreviato, e in attesa di appello): non si tratterebbe di registrazioni ambientali fatte di iniziativa di D’Introno, ma di vere e proprie «intercettazioni surrettizie» che – dice la difesa di Nardi – l’imprenditore avrebbe effettuato su suggerimento dei carabinieri di Barletta che seguivano a distanza gli incontri con Savasta.
Il Tribunale di Lecce (Seconda sezione, presidente Baffa) ha ritenuto che D’Introno è sostanzialmente credibile, e ha stabilito che Nardi è a capo di una associazione a delinquere formata da giudici: si sarebbe fatto corrompere (e avrebbe chiesto denaro, anche millantando) per risolvere i problemi giudiziari di D’Introno e quelli di almeno un altro imprenditore.
La difesa di Nardi non la vede così, e anzi ritiene di aver dimostrato durante il dibattimento le incongruenze nei racconti dei testimoni e nelle ricostruzioni dell’accusa. A partire dalla vicenda del Rolex da 14mila euro che – secondo D’Introno – fu comprato (e non pagato) nel 2016 in occasione dei 50 anni di Nardi, affinché l’ex gip intervenisse sulle sorti del processo per usura. L’orologio però è stato portato in aula da una amica di D’Introno, Rosa Grande, che ha spiegato di averlo avuto in regalo per i suoi 40 anni (due giorni dopo l’acquisto) e di aver mentito ai carabinieri su richiesta di D’Introno. La donna è stata dichiarata inattendibile dai giudici, e la Procura ha fatto balenare l’ipotesi che abbia cambiato versione perché sarebbe stata avvicinata: ma l’orologio che ha portato in Tribunale (è sicuramente quello acquistato da D’Introno perché il numero di serie corrisponde) non è stato sequestrato, anche se potrebbe effettivamente esistere un secondo orologio simile.
Le indagini non hanno consentito di trovare il denaro che D’Introno ha detto di aver dato a Nardi: per la presunta richiesta di 2 milioni di euro a fronte di un intervento sulla sentenza di primo grado del processo per usura a carico di D’Introno, i giudici di primo grado hanno dichiarato la prescrizione. Ma hanno accertato che l’imprenditore ha ristrutturato a sue spese una villa in campagna e la casa di Roma dell’ex gip, che però sostiene di aver pagato i lavori almeno in gran parte.
La difesa dell’ex gip ripropone poi alcuni punti controversi che il Tribunale non ha ritenuto di dover valorizzare. A partire dalle circostanze iniziali dell’indagine (una intercettazione ambientale nell’auto di un imprenditore sotto estorsione, in cui si parla di un «magistrato alto e brizzolato»): la difesa ritiene oscure le modalità con cui si è arrivati all’identificazione di Nardi, anche perché la nota di trasmissione dalla Procura di Trani a quella di Lecce contiene un errore di date. Per il Tribunale e per gli stessi magistrati tranesi si è trattato di un refuso.
L’appello di Nardi non è ancora stato fissato. L’ex gip è tornato libero da quasi due mesi. L’ex collega Savasta (10 anni) è invece tuttora ai domiciliari: la difesa punta a un patteggiamento in appello. D’Introno ha patteggiato due anni e 8 mesi, e sta finendo di scontare la condanna per usura che avrebbe voluto evitare pagando i giudici.