La lunga e dolorosa storia, finita male, di Cosimo Andriani “Valentina” e Antonio Andriani “Asha”, i due fratelli-sorelle arrivate a Torino da Molfetta.

Da una notizia battuta dall’ANSA abbiamo appreso del ritrovamento, a Moncalieri, in strada Santa Brigida da parte dei carabinieri, del cadavere di Umberto Prinzi. Da circa un anno l’uomo aveva finito di scontare una condanna a 22 anni di carcere per avere ucciso nel 1995 Cosimo Andriani, conosciuto come ‘Valentina‘, il trans strangolato e poi gettato in un dirupo nelle Valli di Lanzo dove soltanto nel 2007 sono stati trovati i suoi resti.
Si indaga per omicidio, alla ricerca di ogni traccia utile a ricostruire gli ultimi attimi di vita della vittima. Col metal detector, i militari dell’Arma stanno cercando in particolare oggetti contundenti o eventuali bossoli. Il cadavere, ad un primo esame del medico legale, presenta tre ecchimosi sul collo, che fanno pensare a uno strangolamento, e uno squarcio dietro al collo, all’altezza dell’orecchio destro, che potrebbe essere compatibile con un foro di proiettile.

   

Ma la storia di Umberto Prinzi è legata a quella di Cosimo Andriani,”Valentina” e di suo fratello Antonio AndrianiAsha“, la coppia di fratelli-sorelle arrivate a Torino dalla Puglia, e finiti ammazzati. Nel 2007 in un articolo de “la Repubblica” il giornalista Meo Ponte racconta la storia di questi due ragazzi di Molfetta che erano giunti a Torino nel 1980 per la prima volta.

Allora si chiamavano ancora Antonio e Cosimo Andriani ma dentro di loro sentivano già di essere Asha e Valentina. Erano partiti da Molfetta per una vacanza. «La città gli era piaciuta e avevano deciso di restare» spiegava sedici anni fa la sorella Agnese. In Puglia avevano lasciato i genitori e i pregiudizi. «In famiglia però avevamo accettato la loro scelta – diceva ancora Agnese che a Torino viveva con il marito – Eravamo dieci fratelli: cinque maschi e cinque femmine ma solo all’ anagrafe. In realtà ben presto capiì che avevo sei sorelle». Avevano fatto fortuna quelle due sorelle imprigionate in corpi maschili. Si erano comprate entrambe la casa, cumulato una fortuna (Asha aveva depositato 500 milioni nel conto corrente, Valentina addirittura 800). E soprattutto si erano trasformate: capelli lunghi, nerissimi, occhi bistrati, seni prosperosi. Impossibile riconoscere in loro i due fratelli partiti da Molfetta.

Si vendevano tutte e due sul marciapiede: una su un lato di corso Ferrucci, l’altra sull’altro. La sera del 14 febbraio 1991 la strada dove Asha era solita mostrarsi coperta solo di una rete sotto la pelliccia diventò la trappola in cui la chiusero i suoi assassini. Salì su una Renault blu quella sera Asha. Conosceva Corrado Giordano, il ragazzo che la guidava. Si fidò anche di Paolo Scialuga che sedeva dietro in silenzio e che poco dopo le avrebbe sparato un colpo nella nuca. Il suo cadavere fu scaricato davanti al cancello di un garage in via Sangano. I due ragazzi «per bene» cercarono di bruciare l’auto, simularono il furto della vettura poi confessarono. «Ho sparato io, avevo la pistola di Corrado accanto. Lei era seduta davanti. Ho sentito l’irrefrenabile impulso di sparargli. Non so perché…» ammise Paolo Scialuga che se la cavò con una condanna a sei anni.

Valentina quando aveva saputo della morte di Asha pianse. «La strada fa paura, temo di fare la stessa fine» disse tra le lacrime. Non sapeva che per lei il destino aveva in serbo qualcosa di ancor più terribile. Che ad ucciderla non sarebbe stato lo sconosciuto di una sera ma l’uomo che presentava come il fidanzato. Lo aveva conosciuto in un locale notturno Umberto Prinzi. Prima c’erano stati altri «fidanzati»: timidoni che si innamoravano di lei e le insegnavano a compilare gli assegni ed ad aprire un conto in banca. E che in tribunale ricordarono: «Lei i soldi li metteva in un puff alla rinfusa». Ma come Asha ogni mese anche Valentina mandava 300mila lire a Molfetta. «Per aiutare i nostri genitori a pagare l’ affitto» spiegava Agnese. Valentina era sparita nel maggio del ’95 ma la denuncia ufficiale della sua scomparsa porta la data del 5 giugno. Il primo maggio, a mezzogiorno, aveva telefonato per l’ultima volta alla sorella Agnese. Poi il silenzio. Dal suo cellulare però erano partite ancora cinque telefonate: le aveva fatte Umberto Prinzi che aveva anche impegnato le pellicce di Valentina al Monte dei Pegni. Il 4 settembre la Clio di Valentina era stata ritrovata in piazza Savoia e nel novembre ’96 finalmente la Squadra Mobile aveva arrestato Umberto Prinzi. Contro di lui c’era anche la testimonianza di una cugina di primo grado, Marai Ferrari, che agli agenti raccontò che Umberto le aveva confidato l’omicidio: «Ha litigato con lei, l’ha presa per il collo. Non voleva ucciderla ma l’ha strangolata. Ha seppellito il corpo e preso i gioielli». Più tardi però si era rimangiato tutto. Era iniziata così la lunga vicenda processuale e il pm Enrica Gabetta dopo un dibattimento denso di colpi di scena e nonostante non si fosse mai trovato il cadavere di Valentina era riuscita ad ottenere la condanna dell’assassino a ventiquattro anni, poi ridotti a ventidue. La storia era finita così: con inutili scavi nella valle di Viù e la sensazione che forse di Valentina non si sarebbe mai più trovato nulla, fino a quando in un dirupo nelle Valli di Lanzo soltanto nel 2007 sono stati trovati i resti di Cosimo Andriani “Valentina”. Ora il ritrovamento del corpo di Umberto Prinzi riapre questa lunga e dolorosa storia. 

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