Il peso della legge elettorale sul rischio astensionismo e la democrazia col naso turato

Preoccupa il tasso sempre crescente di astensionismo in occasione delle consultazioni elettorali. La democrazia è partecipazione, ma se per le elezioni della Camera nel 1948 votò il 92,23 per cento degli aventi diritto, per le politiche del 2018 l’affluenza alle urne era già calata al 73. E in occasione delle ultime elezioni amministrative, al 55 per cento al primo turno e soltanto al 40 al secondo. È lecito allora interrogarsi sulla qualità della nostra democrazia.

Tra le ragioni del non voto, che alcuni esperti legano al crescente tasso di povertà, sicuramente va annoverata la legge elettorale che consente ai partiti di imporre dall’alto le candidature, secondo valutazioni ampiamente discrezionali. Un sistema, quello in vigore, che nella legislatura che ora si conclude non si è potuto/voluto modificare, nonostante le critiche bipartisan al cosiddetto Rosatellum. Non di meno crea disaffezione al voto la contraddittorietà delle scelte dei partiti. Il Pd, per esempio, in economia dovrebbe ispirarsi a teorie keynesiane, incentrate sull’incremento della spesa pubblica: come si spiega allora la candidatura di Carlo Cottarelli, esperto di risparmio della spesa? Legato sino a pochissimo tempo fa ad Azione di Carlo Calenda.

E il centrodestra, coalizione dichiaratamente garantista ma legalitaria, come mai tace a proposito del contrasto alle mafie, tema del tutto assente nel dibattito pre-elettorale? Vi è sicuramente fra gli aventi diritto al voto che non si recheranno a votare, oltre alla purtroppo ampia fascia di poveri, disoccupati, giovani senza prospettive, pensionati alla fame, che non si riconoscono nei programmi elettorali, percepiti come avulsi dai loro reali bisogni, anche una certa percentuale di potenziali elettori consapevoli.

Essi non individuano tra le forze in campo quelle che danno affidamento di rappresentare con coerenza i valori in cui gli elettori si riconoscono. Al momento i sondaggi pre-elettorali definiscono al 40 per cento il dato di non votanti e incerti sull’espressione di voto. Se così fosse, un partito che raccogliesse il 24-25 per cento di voti sul 60 di votanti, risultando primo e dunque legittimato a governare, potrebbe porre mano, con la maggioranza disponibile in parlamento, a riforme della Costituzione, pur rappresentando soltanto una percentuale trascurabile del Paese reale. E di riforma della Carta si discute in campagna elettorale, essendovi sul tavolo la proposta del centrodestra di riformare il sistema di nomina del capo dello Stato con l’introduzione del cosiddetto presidenzialismo.

Il che vorrebbe dire non avere più un presidente della Repubblica organo di garanzia ma figura di parte, legata alle forze politiche che ne hanno propugnato l’elezione diretta. Allora dovrebbero cambiare molte norme della Carta: un presidente di parte non potrebbe svolgere più molte delle funzioni assegnategli attualmente, come per esempio la designazione di giudici costituzionali. Ci si deve chiedere allora se si potrebbe a colpi di maggioranza qualificata, ma minoranza nel Paese, modificare una Costituzione frutto del sangue versato per la liberazione dal nazifascismo prima e dell’opera di insigni giuristi e politici di area cattolica, liberale e marxista poi.

Sul delicatissimo tema della giustizia, poi, non può non rilevarsi il perfetto allineamento di Calenda e Matteo Renzi alle posizioni del centrodestra. Su temi come la separazione delle carriere dei magistrati, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione e la responsabilità civile diretta dei magistrati che richiedono anch’esse previe modifiche costituzionali. Si rischierebbe altrimenti la cancellazione delle riforme a opera della Corte costituzionale, come già avvenuto per il tentativo, operato da Silvio Berlusconi con la legge Pecorella, di introdurre quella medesima inappellabilità. Contraddizioni evidenti per una forza politica che si dichiara centrista, se è vero invece che Azione annovera tra i sodali l’ex forzista Raffaele Costa e le ministre Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna, pure di imprinting berlusconiano. E che opera in ritrovata sintonia con Renzi, che pure era stato attaccato violentemente nello scorso novembre dal medesimo Calenda, il quale ora recupera l’altro dalle sabbie del deserto arabico, offrendogli la possibilità di elezione, altrimenti non raggiungibile.

Quanto alle designazioni dei candidati, Giuseppe Conte raccoglie candidature di perfetti sconosciuti, a parte le 15 che ha indicato personalmente; il Pd concede Bologna al sempiterno Pierferdinando Casini, imperituro democristiano, inducendo molti iscritti al partito a strappare le tessere. Enrico Letta, poi, non oppone resistenza a quelli (Vincenzo De Luca a Napoli e Michele Emiliano a Bari) che sul Domani vengono definiti “cacicchi” (letteralmente: capi indigeni dell’America centrale e meridionale). De Luca impone così la candidatura del figlio Pietro, di alcuni sindaci e altri del suo entourage, mentre Emiliano stravolge le regole statutarie sulla parità di genere e penalizza le donne assicurando un posto sicuro al suo capo di gabinetto (neppure iscritto al partito).

Non meraviglia che autorevoli esponenti del medesimo Pd pugliese definiscano le proposte del Pd in Puglia «invotabili e illegali». Correttamente, su Repubblica, Francesco Piccolo ha segnalato con amarezza il pericolo che alla fine l’espressione di voto risponda a un’esigenza di tipo morale, più che a un’adesione a programmi elettorali: si riferisce al Pd, ma la tesi può estendersi a tutte le forze politiche. Si pensi a chi pone il segno sulla “fiamma” per fedeltà a ideali nostalgici, senza molto conoscere del programma e delle eventuali conseguenze.

Si vota un certo partito perché “si deve”, in ossequio a un obbligo di fedeltà. In fondo, sarebbe l’attuazione del vecchio consiglio montanelliano per cui occorreva votare Dc pur turandosi il naso. Non è questa la democrazia che gli italiani vorrebbero.

fonte: Giuseppe Volpe, già capo della Procura della Repubblica a Bari – repubblica-bari. Venerdì, 26 agosto 2022

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