Il nostro mare? Una bomba ad orologeria

 

L’allarme era già scattato in luglio, quando il Liberatorio Politico aveva chiesto informazioni a più riprese, senza ricevere alcuna risposta, al Sindaco di Molfetta sugli eventuali  monitoraggi fatti nelle acque interessate alla presenza delle bombe all’iprite.
Di fronte al silenzio delle istituzioni cittadine lo stesso Liberatorio il 25 agosto ha chiesto ufficialmente all’ A.R.P.A. Puglia  (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale) un monitoraggio delle acque marine comprese nello specchio d’acqua antistante Torre Gavetone per verificare eventuali presenze di sostanze tossiche riconducibili agli ordigni bellici a caricamento chimico presenti.
La richiesta scaturiva da una preoccupante segnalazione di un cittadino che aveva denunciato, nella giornata del 27 luglio scorso, degli strani sintomi di bruciore, non consueto, che la propria moglie aveva avvertito a livello del proprio apparato genitale dopo aver trascorso una giornata al mare in località Torre Gavetone.
Nelle ore successive all’evento traumatico, le manifestazioni erano diventate più dolorose e durante un consulto medico era stata riscontrata l’infiammazione vaginale esterna ed interna con gravi lesioni dell’epitelio della mucosa.
La lesione ha richiesto un intervento chirurgico con il laser mentre lo stato infiammatorio, che nei giorni successivi si è ulteriormente accresciuto, è stato affrontato attraverso terapie diverse con l’uso successivo di differenti prodotti antinfiammatori senza inizialmente riuscire ad incidere né sul dolore né sullo stato infiammato dei tessuti.
Il ginecologo ha subito scartato l’ipotesi di un agente microbico come origine di tali problematiche, ed ha ipotizzato l’origine delle lesioni da un contatto con sostanza fortemente urticante la cui origine non è stato in grado di stabilire. Si è trattato comunque di qualcosa che può essere entrata in contatto con il costume da bagno e di lì essere stata assorbita dalla cute.
E’ importante rilevare che anche un’altra donna, anche lei presente sulla stessa spiaggia il 27 luglio, ha manifestato, dopo 24 ore, la stessa identica sintomatologia (infiammazione esterna e, parzialmente, interna, lesione interna, dolori), in una forma però molto più lieve.

Questi i casi di cui si ha conoscenza, ma non si può escludere che ce ne siano stati altri non segnalati o non ricondotti alla permanenza in mare, senza parlare delle numerose centinaia di casi di bagnati che questa estate hanno accusato malesseri vari riconducibili all’alga tossica.

Invece sono note le segnalazioni e denunce che in queste ultime settimane alcuni pescatori molfettesi hanno presentato non solo al Sindaco e alla Capitaneria di Porto, ma anche alla stessa A.R.P.A. che ha effettuato nei giorni scorsi prelievi di campioni di acqua lungo la costa molfettese.
Le mani di Vitantonio Tedesco, presidente della Cooperativa “Piccola Pesca”, parlano da sole.
Mani gonfie, vescicate e spazi interdigitali screpolati. Lui e gli altri compagni della cooperativa sono stanchi di negare l’esistenza di qualcosa di misterioso che li attacca ogni volta che salpano le loro reti. I loro occhi lacrimano, tossiscono e, a volte, manca il respiro.

“E’ da parecchi anni – dice Vitantonio – che questa storia va avanti, ma non volevamo parlarne perché avevamo paura che ci impedissero di continuare a pescare; ma ora la situazione peggiora giorno dopo giorno, e forse pensiamo anche alla nostra salute. Non è stato facile – aggiunge – prendere la decisione di denunciare la presenza di questa sostanza che sembra “coca-cola”; sappiamo bene che molti nostri colleghi non approvano questa nostra decisione, ma noi siamo determinati e non torniamo più indietro. Vogliamo conoscere la verità, vogliamo sapere che cos’è quella sostanza scura maleodorante che viene su insieme alle nostre reti e che ci costringe ad imbottirci di antibiotici. E poi, anche i pesci cominciano a cambiare, spesso peschiamo pesci malati, con strane chiazze sulla pancia ”.

Forse quest’ultima considerazione potrebbe essere correlata ad un dossier dell’Istituto per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (I.C.R.A.M.), che rappresenta il risultato di due anni (’98-99) di indagini in mare e di campionamento e analisi delle acque e dei pesci, in un tratto di mare esteso per 10 miglia nautiche e che si trova a 35 miglia al largo di Molfetta Questa bomba ecologica è il frutto dello smaltimento di armamenti obsoleti a caricamento chimico avvenuta nell’immediato dopoguerra. Una situazione nota alle autorità politiche e militari, ma sempre sottaciuta per ovvi motivi.
Il rapporto finale del coordinatore delle indagini, il biologo Ezio Amato, riportato in numerosi servizi giornalistici de “l’Espresso” e della rivista scientifica “Galileo”, parla in maniera inequivocabile.
In quei fondali c’è una vera santabarbara: bombe a mano, da aereo, da mortaio, mine, quasi tutte a “caricamento speciale”. In alcuni casi l’aggressivo chimico è conservato in bidoni anch’essi adagiati sui fondali, e che, a causa della corrosione, continuano a rilasciare sostanze letali,  Vescicanti (iprite e lewisite); asfissianti (fosgene e difosgene); irritanti (adamsite); tossici della funzione cellulare (ossido di carbonio e acido cianidrico).
A seconda dei casi, queste sostanze provocano la distruzione delle cellule umane, attaccando occhi, pelle e apparato respiratorio; alterano la trasmissione degli stimoli nervosi.
Negli organismi che ne entrano in contatto, siano esse allo stato liquido o gassoso, le sostanze provocano bruciore, edema, congiuntiviti, congestioni in naso, gola, trachea e bronchi, danni polmonari cronici e asfissia. E non basta: scientificamente provate sono anche le alterazioni genetiche.
Quando non c’è un danno immediato agli occhi, è il sistema respiratorio ad accusare i sintomi più evidenti dell’intossicazione: “Dolore toracico, tosse, ipofonia e faringodinia“, scrive in un altro suo studio il dott. Giorgio Assennato. Esposizioni gravi producono la morte per insufficienza respiratoria e polmonite. E, soprattutto, tumori.
Quanto ai danni provocati nell’ambiente marino, lo studio dell’Icram è chiaro. I campioni prelevati dai ricercatori, acqua, sedimenti e pesci, sono stati sottoposti a quattro diverse metodologie d’analisi che indicano la sussistenza di danni e rischi per gli ecosistemi marini determinati da inquinanti persistenti rilasciati dai residuati corrosi. In particolare, grazie ai confronti con esemplari della stessa specie prelevati nel Tirreno meridionale, le analisi hanno rivelato nei pesci dell’Adriatico “tracce significative di arsenico e derivati dell’iprite”. Particolarmente rilevanti “le alterazioni a carico di milza e fegato”. Per quanto riguarda la milza è stato osservato un “aumento di volume, consistenza diminuita e presenza di noduli”. Altre alterazioni a carattere più sporadico sono state riscontrate a carico delle branchie con presenza di emorragie. È stata anche riscontrata la presenza di parassiti in branchie, cavità addominale e tessuto cutaneo. Cosa significa tutto questo in linguaggio meno tecnico?  “Che i pesci dell’Adriatico”, spiega Ezio Amato, “sono particolarmente soggetti all’insorgenza di tumori; subiscono danni all’apparato riproduttivo; sono esposti a vere e proprie mutazioni genetiche che portano a generare esemplari mostruosi”.
Non essendoci limitazioni alle attività di pesca, questi pesci continuano a finire sulle tavole dei consumatori. Con quali conseguenze per la nostra salute?
E non basta. Si aggiunga a questo la presenza di un certo numero di bombe sganciate da aerei durante la crisi del Kosovo, per le quali recenti notizie lasciano temere che possa sussistere la presenza di uranio impoverito. Quindi è indispensabile mettere in atto ogni possibile misura per verificare se i prodotti ittici sbarcati nei porti adriatici presentino anomalie, sia per la radioattività superiore alla norma, sia per la presenza di sostanze chimiche tossiche.

Liberatorio Politico
Matteo d’Ingeo

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