Catania affoga, ma i “migliori” pensano alle grandi opere

(n.d.r.) Dopo la lettera del prof. Luigi Tedesco, pubblicata il 24 settembre scorso, continuiamo la nostra riflessione sul tema ambientale con un articolo del prof. Tomaso Montanari apparso su “Il Fatto Quotidiano“. Partendo dagli eventi alluvionali che hanno interessato in questi giorni Catania, Montanari affronta il problema della messa in sicurezza del territorio e dell’erosione inarrestabile del suolo a favore di una indiscriminata cementificazione e della discutibile utilità di certe “grandi opere”.

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L’inferno di acqua e di fango che si è abbattuto su Catania è l’altra faccia di questo autunno caldo e siccitoso. E la reazione a questo complessivo disastro ambientale è una versione particolarmente indisponente del blabla dei potenti del pianeta instancabilmente denunciato da Greta. I grandi giornali italiani hanno sostanzialmente detto che Catania si salva a Glasgow, nella Cop 26 di novembre: cioè nella conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Il che naturalmente è verissimo: perché solo con una globale inversione di rotta si risolve il problema più globale (e fatale) che riguardi oggi l’umanità. Ma se questa solenne invocazione delle sedi internazionali è invece l’ennesima via di fuga per non inchiodare i governi nazionali alle loro responsabilità allora è solo una truffa: un tirare la palla in tribuna per assolvere una squadra di incompetenti, o peggio. E uno si chiede: ma Catania è ancora una città di quella Sicilia per cui questo governo ha resuscitato il Ponte sullo Stretto come via taumaturgica a una crescita che travolge impunemente ambiente, sostenibilità, interesse pubblico in nome di quell’ideologia delle Grandi Opere che significa opere utili solo per chi le fa? Come è possibile che il pianto sull’alluvione di Catania sia un discorso del tutto separato da quello del Ponte?

Dice il Vangelo: “Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà una serpe?”. Ecco, chi: i nostri governi, incluso questo dei Mi- gliori. Perché a una terra che avrebbe bisogno di risanamento idrogeologico del territorio, difesa del suolo, prevenzione antisismica, si danno solo Grandi Opere cementizie e criminogene. Una serpe al posto del pesce, appunto.

E la conferma più clamorosa viene dal cosiddetto fiore all’occhiello del governo Draghi, la sua
stessa ragione di esistere: il Pnrr. Se il Piano parla della questione chiave – il “consumo di suolo” – lo fa solo per regredire dal consumo zero (che l’Unione europea impone di raggiungere nel 2050) all’invito, paternalistico a “limitarlo”: il che significa dire “state buoni se potete” a un branco di assatanati capitalisti del cemento.

Eppure l’Ispra, che è un’agenzia scientifica del governo e non una cellula comunista, scrive nel suo rapporto 2021: “Il consumo di suolo, il degrado del territorio e la perdita delle funzioni dei nostri ecosistemi continuano a un ritmo non sostenibile e, nell’ultimo anno, quasi due metri quadrati ogni secondo di aree agricole e naturali sono state sostituite da nuovi cantieri, edifici, infrastrutture o altre coperture artificiali. Il fenomeno, quindi, non rallenta neanche nel 2020, nonostante i mesi di blocco di gran parte delle attività durante il lockdown, con più di 50 chilometri quadrati persi, anche a causa dell’assenza di interventi normativi efficaci in buona parte del Paese o dell’attesa della loro attuazione e della definizione di un quadro di indirizzo omogeneo a livello nazionale. Le conseguenze sono anche economiche, e i “costi nascosti”, dovuti alla crescente impermeabilizzazione e artificializzazione del suolo degli ultimi 8 anni, sono stimati in oltre 3 miliardi di euro l’anno che potrebbero erodere in maniera significativa, ad esempio, le risorse disponibili grazie al programma Next Generation Eu”.

Ma l’hanno letto questo rapporto, al governo? Tra le Grandi Opere non c’è traccia dell’unica utile: la messa in sicurezza del territorio. Il Piano destina alle “Misure per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico2,49 miliardi: meno di un decimo di quanto regalato al cemento delle nuove infrastrutture. Quale idea di Paese, quale conoscenza della sua morfologia, quale amore per il nostro futuro presiede a un simile suicidio collettivo travestito da modernizzazione?

fonte: Tomaso Montanari – www.ilfattoquotidiano.it

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