Mafia, un altro colpo ai clan. Condannati gli uomini di Diomede, Mercante e Capriati

MAPPA –  la galassia delle organizzazioni criminali e le varie zone di influenza

Il cerchio si chiude. Tutti gli elementi sono al loro posto e ora, finalmente, si ha una visione completa del tutto. Il Tribunale di Bari ha condannato Giuseppe Mercante, 67 anni, detto «Pinuccio il drogato», uno dei padrini della malavita barese e altri tre imputati nel processo «Pandora» a pene comprese tra i 15 anni e 8 mesi e i 6 anni di reclusione, e ne ha assolto altri quattro, tra i quali l’ex vicepresidente dell’associazione Fai-Antiracket di Molfetta, l’imprenditore Roberto De Blasio, titolare di un’agenzia di vigilanza privata. Il vaso di Pandora, nella mitologia greca, è il leggendario contenitore di tutti i mali che si riversarono nel mondo dopo la sua apertura. Nell’inchiesta condotta dagli uomini del Raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei Carabinieri, coordinata dai magistrati antimafia della Dda, il procuratore aggiunto Francesco Giannella con i sostituti Giuseppe Gatti (adesso alla Direzione nazionale antimafia e terrorismo), Lidia Giorgio e Renato Nitti (ora procuratore di Trani) sono racchiusi tutti i mali della mafia barese.

Dodici anni di rapporti criminali, di relazioni e di complicità, di affiliazioni, di gestione del mercato della droga, di ricatti, di estorsioni, di tentativi di assumere il controllo di attività produttive e commerciali sane e legali. Dodici anni di storia della Gomorra barese, vissuti a Bari Vecchia, Libertà, San Paolo, Carrassi, San Paquale e in provincia a Bitonto, Triggiano, Adelfia, Altamura, Gravina, Bisceglie, Trani, Terlizzi, Ruvo e Corato nelle trame ordite principalmente da due famiglie di camorra: MercanteDiomede e Capriati. Un paziente lavoro di ricerca nel quale sono confluite migliaia di ore di intercettazioni telefoniche e ambientali, le testimonianze di 50 pentiti, gli atti di 170 tra ordinanze e sentenze. L’inchiesta è culmita nel giugno del 2018 con l’arresto di 104 persone (102 erano «picciotti» già conclamati, 59 del clan Mercante-Diomede e 43 del clan Capriati). Lo scorso 28 gennaio, al termine del processo celebrato con rito abbreviato, il gup Rossana de Cristofaro ha condannato novanta di quegli affiliati a pene comprese tra i 12 anni e i 16 mesi di reclusione, assolvendone solo uno.

I reati contestati: associazione di tipo mafioso, tentato omicidio, rapina, sequestro di persona, detenzione di armi, lesioni personali con aggravante mafiosa, violazione della misura della sorveglianza speciale. Tra le condanne più elevate quelle inflitte ai due cosiddetti «pezzi da novanta», il barese Nicola Diomede (11 anni e 4 mesi) e il bitontino Domenico Conte (10 anni e 8 mesi) e il pregiudicato Gioacchino Baldassarre (12 anni), ritenuti gli uomini che avevano nelle loro mani le leve del comando. Il gup ha imposto agli imputati anche il risarcimento danni, da quantificarsi in sede civile, nei confronti delle parti costituitesi nel processo: il Comuni di Bari, assistito dall’avvocato Giuseppe Buquicchio, quello di Terlizzi e l’associazione Antiracket di Molfetta. Secondo la ricostruzione della Dda le due «famiglie» oltre che colonizzare la provincia barese avrebbero esteso i propri affari illeciti in tutta la regione, federandosi e stringendo rapporti commerciali anche con le altre organizzazioni criminali pugliesi. Per l’approvvigionamento della droga poi avrebbero stretto accordi anche con ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e Camorra. Il lavoro degli investigatori della seconda sezione del Reparto anticrimine del Ros è partito dalla scarcerazione nel 2006 del presunto «padrino» Giuseppe Mercante, per i più intimi «Compa’ Peppe», uno dei presunti «mammasantissima», al quale i suoi attribuivano il potere di decidere della vita e della morte, consegnandogli anche il ruolo di «paciere» e di mediatore, colui al quale spettava il compito di dirimere non solo le controverse intestine al sodalizio retto in condominio (secondo l’accusa) con Nicola Diomede, il più grande dei quattro figli di Biagio Diomede, ma anche di grande saggio e sensale quando le diatribe riguardavano affiliati di altre famiglie della camorra barese. In questa maniera sarebbe cresciuto il suo carisma di pari passo alla capacità di esercitare un ruolo di potere. Il suo personale «tribunale», il luogo dove saliva sullo scranno del giudice (uno sgabello da bar), per sentire le «parti convenute» e dispensare pillole di saggezza e sputare sentenze era in via Brigata Regina. Stando alla versione degli uomini del Ros, proprio tra i tavoli di quel bar avrebbe tenuto indimenticabili lezioni di mafia. Avrebbe insegnato ai suoi ragazzi che nell’«onorata società» (termine proprio dei camorristi napoletani) più di tutto «Tre cose contano: omertà, rispetto e dignità». Frasi rubate attraverso intercettazioni ambientali e telefoniche. Parlando di lui i giovani d’onore ed i picciotti erano soliti dire con enfasi e rispetto «Pinuccio è il capo, lui decide se devi vivere o devi morire». Grande era il suo potere e il suo carisma. Un collaboratore di giustizia a proposito dei ragazzi di Pinuccio «u’drogat» ha raccontato agli inquirenti “Sono come i funghi. Vanno in carcere e lì fanno le affiliazioni. E poi escono”.

fonte: Luca Natile – www.lagazzettadelmezzogiorno.it

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