Giudice con la mazzetta, un mercimonio desolante. Ma il dovere di vigilare non è solo delle Procure

Un patto corruttivo prolungato fra giudice e avvocato per agevolare diversi clan mafiosi dediti prevalentemente al narcotraffico, dal Foggiano al Barese, scarcerandone i componenti arrestati. La presunzione di non colpevolezza è messa a dura prova dal fatto che il giudice è stato colto nella quasi flagranza dell’ultima corruzione: mentre metteva a posto la mazzetta di banconote dopo essere uscito dallo studio dell’avvocato che gliel’aveva passata. È sempre di conforto il bicchiere mezzo pieno: ancora una volta – come in altre, risultanti dai processi in corso in terra di Bari come nel Salento – la giustizia dà prova di non arretrare dinanzi alle malefatte dei propri operatori. Vuol dire che la magistratura pugliese, come in genere quella italiana, possiede gli anticorpi per reagire alla malattia. Indaga imparzialmente su parti del proprio corpo.

Ma bisogna guardare anche al bicchiere mezzo vuoto. Ed è allora desolante anche il solo immaginare questo mercimonio della giustizia e della libertà personale non occasionale, ma protrattosi nel tempo. Come una variante speciale del processo ordinario: la libertà a pagamento, pattuita fra il magistrato e l’avvocato, non senza la ricompensa per l’ufficiale di polizia giudiziaria che ha rivelato loro che erano sottoposti ad indagini. E sullo sfondo i generosi elargitori del danaro sporco: le famiglie legate alle mafie e alla criminalità organizzata, che si sarebbe dovuto contrastare.

È questa la scena sconvolgente che aumenta naturalmente il tasso di percezione della corruzione, anche al di là delle sue reali dimensioni. Ma l’esecrazione non basta. Occorre anche interrogarsi sul perché fatti del genere avvengono soprattutto nella fase delle indagini preliminari, quella più critica per la libertà, non solo personale, dei cittadini. Si tratta di una zona opaca, governata da poche norme e molte prassi e a lungo diluita nel tempo. Il rischio che attraverso queste maglie larghe si insinuino traffici illeciti c’è. Motivazioni stereotipate possono restringere le libertà o restituirle, in attesa di un eventuale riesame. Bene fa il Recovery Plan del governo a progettare “scansioni temporali più certe e stringenti“.

Vedremo. Ma la riforma, ovviamente, non è nelle mani dei giudici. Una riflessione con aspetti operativi, invece, è quella sul carattere non isolato di questi fatti criminosi, in Puglia come altrove. Continua a stupire che anche in magistratura si debba aspettare – come in altre amministrazioni – l’intervento del magistrato penale per scoprirli. Certo, il giudice è soggetto soltanto alla legge. Ma un controllo estrinseco del suo operato, specie sui tempi, potrebbe darsi. A parte il ruolo dei dirigenti, quello di cui chiaramente si sente la mancanza è il ruolo dell’Associazione dei magistrati. Sembra diventata un organismo soltanto sindacale (e corporativo). Ma la sua natura storicamente è quella di svolgere anche, e soprattutto, una funzione culturale. Che pensa anche a denunciare situazioni di pigrizia, di insensibilità, di negligenza.

Non parliamo della corruzione o del favoritismo. Se n’è dimenticata? Si capisce che la sua voce in questo momento è flebile per l’inevitabile contraccolpo subito a causa della “modestia etica”, per riprendere l’eufemismo del presidente della Repubblica, di non pochi suoi rappresentanti e dirigenti.

Ma non deve diventare improponibile l’ideale di Piero Calamandrei: “I giudici son come gli appartenenti a un ordine religioso: bisogna che ognuno di essi sia un esemplare di virtù, se non si vuole che i credenti perdano la fede“. Ormai è in gioco appunto la credibilità del controllo di legalità affidato alla magistratura. E allora raccogliere voci, approfondirle, trasmetterle al consiglio giudiziario che ha modo di intervenire: si può e si deve. Altrimenti chi custodirà i custodi?

fonte: NICOLA COLAIANNI – bari.repubblica.it

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