“Erano loro che cercavano me”. Riina, le bombe, le ombre delle istituzioni: storia e segreti della ‘trattativa’

In camera di consiglio per la sentenza d’appello. In primo grado condannati gli ex ufficiali del Ros Mori, Subranni, De Donno, e l’ex senatore Dell’Utri. Fra 1992 e 1993, avrebbero dialogato con Cosa nostra per fermare gli attentati; in cambio sarebbe arrivato l’allentamento del carcere duro fonte: Salvo Palazzolo – palermo.repubblica.it

“Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”, continuava a ripetere il ‘capo dei capi’ di Cosa nostra, Totò Riina, negli ultimi anni della sua vita. E’ morto il 17 novembre 2017. Era sommerso dagli ergastoli, ma chiedeva sempre di assistere a tutte le udienze del suo ultimo processo, anche in barella. Eppure, in quel dibattimento rischiava solo qualche anno di carcere. Ma erano i suoi coimputati a interessarlo particolarmente. Voleva vederli in videoconferenza, voleva sentire le loro parole. Compagni d’udienza davvero particolari: per la prima volta gli uomini dello Stato. Anche loro sotto accusa,insieme a Riina, per il reato di attentato a un corpo politico. Eccoli: gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, l’ex senatore Marcello Dell’Utri.

Toto Riina 

“Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”, sussurrò un giorno del maggio 2013 il padrino di Corleone agli agenti della penitenziaria. In aula, neanche una parola. Perché in quel processo si parlava del segreto più grande di Cosa nostra, la trattativa che pezzi delle istituzioni avrebbero fatto con i vertici della mafia, mentre l’Italia era dilaniata dal tritolo. Prima, nel 1992, le stragi Falcone e Borsellino. Poi, l’anno successivo, le bombe di Roma, Milano e Firenze. Una trattativa prima con l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, poi con altri interlocutori – ha sostenuto l’accusa – per fermare la strategia stragista di Cosa nostra. In cambio, sarebbe stato allentato il regime del carcere duro.

I funerali di Toto Riina 

Riina è morto prima del verdetto di primo grado, che è stato emesso della corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto: il 20 aprile del 2018 sono stati condannati gli altri mafiosi imputati – Leoluca Bagarella, il cognato del ‘capo dei capi’, a 28 anni; Antonino Cinà, il medico di Riina, a 12 anni – sono stati condannati anche gli uomini dello Stato: il collegio ha inflitto 12 anni a Mori, Subranni e Dell’Utri; 8 anni a De Donno. Assolto invece l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, assoluzione ormai definitiva.

E, ora, siamo alla vigilia della sentenza d’appello: il collegio presieduto da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania) è chiamato a riconsiderare gli elementi raccolti. Converrà ripercorrere le mosse e le parole di tutti i protagonisti di questa storia. Perché è una vicenda ancora carica di misteri, che chiama in causa non soltanto gli imputati del processo, ma anche altri rappresentanti delle istituzioni. E’ una storia cruciale negli eventi drammatici del 1992: dice la sentenza di primo grado che il dialogo segreto avviato dai carabinieri del Ros, Mori e De Donno, con l’ex sindaco mafioso Ciancimino “può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino”; dopo la strage Falcone, Riina volle subito approfittare del “segnale di debolezza proveniente dallo Stato”. Un’accusa pesante, che la difesa respinge.

La strage di Capaci 

Ma, di sicuro, ci fu una “accelerazione” dopo la strage di Capaci: l’ha detto l’ex fidato di Riina, Giovanni Brusca, l’uomo che azionò il telecomando quel 23 maggio 1992; dopo l’arresto avvenuto nel 1996, ha deciso di collaborare con la magistratura e per primo ha parlato di una “trattativa” fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia. “A fine giugno Riina disse: ‘si sono fatti sotto, ci vuole un altro colpetto’ “. Questa storia continua a intersecarsi con le inchieste delle procure di Caltanissetta e Firenze, che stanno cercando fare luce sulla stagione delle bombe del 1992-1993.

Riina e il “traditore”

Il ‘capo dei capi’ aveva davvero una gran voglia di parlare negli ultimi tempi della sua vita. Dopo quella frase consegnata agli agenti della penitenziaria, i pubblici ministeri Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi pensarono di intercettare Riina in carcere, durante l’ora d’aria che trascorreva con un mafioso della Sacra Corona Unita, Alberto Lorusso, nel carcere milanese di Opera. Intuizione azzeccata. Perché all’ora d’aria, il padrino di Corleone detenuto dal 15 gennaio 1993 parlava davvero tanto. “E’ un racconto importante, che vale quanto le dichiarazioni del primo grande pentito di mafia, Tommaso Buscetta”, hanno scritto i giudici della corte d’assise di Palermo.

Ecco dunque le verità di Riina, che non sospettava di essere intercettato dalla Dia. In quei giorni, era assalito dal tarlo del sospetto. Il sospetto di un gran traditore, quello l’aveva fatto arrestare. Un solo nome aveva in testa: Bernardo Binnu Provenzano, il suo compagno di sempre. Anche lui era indagato inizialmente nell’inchiesta ‘Trattativa Stato-mafia’, ma è morto in carcere il 13 luglio 2016.

Bernardo Provenzano il giorno dell’arresto, l’11 aprile 2006 

Negli anni Cinquanta, Riina e Provenzano erano i picciotti più fidati di Luciano Liggio e scorrazzavano con le lupare per le viuzze di Corleone; dieci anni dopo erano alla conquista di Palermo; nel 1978 sferravano insieme l’offensiva contro gli uomini migliori della società civile e dello Stato, una scia di sangue proseguita fino al 1992.

“Mi spiace prendere certi argomenti – diceva Riina il 19 agosto parlando del suo amico di sempre – questo Binnu Provenzano chi è che gli dice di non fare niente?”. Ovvero, di fermare le stragi dopo l’arresto del ‘capo dei capi’. “Qualcuno ci deve essere che glielo dice, perché non devo fare niente? Quindi tu collabori con questa gente… a fare il carabiniere pure… e non dici… a rispondergli giusto, regolarmente, e dirgli: perché devo fare questo?”. Riina accusava senza mezzi termini Provenzano di avere avuto un ruolo determinante nella trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia.

“Ai tempi miei, di Totò Riina, ‘u zu Totò Riina solo trattava cose e persone importanti – diceva ancora con tono solenne – Però… è inutile questo trio… di uomini… non ce n’è che a trovare le idee di un cristianu … che si mettono a disposizione per fare i carabinieri”. Un chiarissimo sfogo contro Provenzano, per come si sarebbe comportato. Dopo l’arresto di Riina, l’organizzazione si spaccò, tra i ‘falchi’ (i Graviano, Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella), che volevano la prosecuzione della linea dura con le stragi in continente, e le ‘colombe’ (Provenzano, Pietro Aglieri e Carlo Greco): “Quello è un bambino che adesso si è ammalato – Riina parlava ancora di Provenzano – però Binnu… non capisco… come lo hanno fottuto… disgraziati… Lui i piccioli (i soldi, ndr) ce li ha. Tanto è vero  che la moglie ce li ha conservati… ce li ha messi a gazzane (nelle mensole, ndr)”.

Provenzano e le “stragi di Stato”

In quei giorni arrivò a disconoscerlo: “Provenzano non era del convento mio – disse a sorpresa il 4 agosto 2013 – certo lo rispettavo, ma lui era convinto che le cose erano a tarallucci e vino. Era un ragazzo dabbene, non un ragazzo che poteva fare malavita, non aveva niente a che vedere con la mafia”. Parole che sembrano incredibili: “Era un ragazzo meraviglioso – aggiunse con tono severo – ma che tu non mi fai dormire tranquillo a me no. Dice, ma questa è sfiducia? No, non è sfiducia, è conoscere, cercare di conoscere la vita degli uomini”. Riina arrivò persino a criticare Provenzano nelle sue scelte familiari: “Questo non ha capito niente. Lasciò i suoi figli in mezzo alla strada, e suo fratello se li è venuti a prendere a Corleone. Hanno fatto malavita mischini, poverini”.

Riina raccontava a modo suo un altro dei giorni importanti che precedettero la stagione delle stragi: il ritorno a Corleone della moglie e dei figli di Provenzano, quaranta giorni prima della bomba di Capaci. Provenzano aveva deciso di farli uscire dalla latitanza, sapeva che dopo il 23 maggio la storia della mafia e dell’antimafia sarebbe cambiata per sempre. Riina ribadiva di avere “avvertito” Provenzano, non è chiaro per cosa: “Però io ce l’avevo detto, Binnu usciamone, e lui mi ha detto: per ora sono messo, che so… ci sono cristiani… che ti ha detto? Perfetto. Eh… Binnu… meschino, mi è dispiaciuto, era una persona, un grande uomo ed un signore… era serio”.

La strage di via dei Georgofili, a Firenze, il 27 maggio 1993 

Cosa era accaduto per davvero fra Riina e Provenzano? Quale scelta li aveva divisi? Per la procura di Palermo fu davvero Provenzano a vendere Riina ai carabinieri. Intanto lui, il ‘capo dei capi’ in carcere dal 1993, continuava a incensarsi: “Con me hanno tutti da perdere, perché io sono un tedesco nato, i tedeschi dovrebbero venire a scuola da me per imparare il tedesco buono”. E ancora: “A me il terreno mi ha buttato e il cielo mi ha accolto… Minchia, stavo sempre dalla parte della ragione”. E non gli importava che alla fine Provenzano avesse proseguito la stagione delle stragi che aveva avviato lui. Riina voleva altre stragi in Sicilia, non oltre lo Stretto.

“Provenzano ha fatto queste stragi di Stato, disonesta mia madre… ci ha pensato lui… A Firenze ci devi mandare a Binnu Provenzano”, diceva al compagno dell’ora d’aria. “Se io sono siciliano perché le devo andare a fare fuori dalla Sicilia?”. E, poi, ecco un riferimento al famigerato papello, le richieste che avrebbe fatto avere allo Stato per bloccare i massacri del 1992: “La cosa si fermò, tre quattro mesi…. ma non è che si è fermata… comunque… io l’appunto gliel’ho lasciato”. L’appunto. A chi lo consegnò? Questo Riina non l’ha mai detto.

Il generale Mori e l’ex sindaco Ciancimino

All’inizio di questa indagine, partita nel 2008 dopo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino (il figlio di don Vito), il presunto motore della ‘Trattativa’ si chiamava Calogero Mannino, l’ex ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno. Secondo i pubblici ministeri di Palermo, ad avviare la trattativa con i vertici di Cosa nostra, all’inizio del ’92, sarebbe stato lui, perché temeva di essere ucciso. C’è traccia di un dialogo riservato che avrebbe avuto con il maresciallo Giuliano Guazzelli, che pur non facendo parte dei reparti investigativi dell’Arma era in ottimi rapporti con l’allora comandante del Ros Antonio Subranni. Ma le accuse contro Mannino, che ha chiesto di essere giudicato col rito abbreviato, sono cadute. E l’assoluzione è ormai diventata definitiva.

Il generale Mario Mori 

Dunque, adesso, l’inizio della storia ha un’altra data. E altri nomi. Maggio 1992, dopo la strage Falcone, l’allora capitano De Donno contatta l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino tramite il figlio. Mori dice di essere entrato in gioco solo dopo la strage Borsellino. Ciancimino junior lo smentisce, ma la sentenza di primo grado l’ha dichiarato testimone inattendibile. Però, un dialogo segreto ci fu, fra i carabinieri e Ciancimino. Loro hanno sempre detto, per discolparsi: “Era un contatto per provare a far cessare le stragi”. Hanno ribadito: “Giammai, una trattativa può essere ritenuta illecita né sotto il profilo politico, né sotto quello giuridico, competendo al potere esecutivo e alle forze dell’ordine promuovere tutte le iniziative ritenute necessarie per prevenire l’ulteriore commissione di gravi crimini”. Ma, la sentenza di primo grado ha smontato questa ricostruzione. Dice “che non può ritenersi lecita una trattativa da parte di rappresentanti delle istituzioni con soggetti che si pongano in rappresentanza dell’intera associazione mafiosa”. E ricorda che in un’altra stagione drammatica per il Paese, quella dei giorni del rapimento di Aldo Moro, “lo Stato scelse la via dell’assoluta fermezza”. Cosa che non sarebbe accaduta dopo la strage Falcone.

L’iniziativa dei carabinieri fu più che un’azione di polizia spregiudicata, gli imputati finirono per stimolare “il superamento del muro contro muro”, accusa la sentenza della corte d’assise di Palermo, che attribuisce a Mori, De Donno e Subranni “il dolo specifico di colui che abbia lo scopo di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso o che comunque abbia fatto propria tale finalità”. Ecco perché le pesanti condanne, nonostante sia stato giudicato “inattendibile” Massimo Ciancimino. Ma altre altre prove accusano i tre ufficiali dell’Arma. Ad esempio, il racconto dell’ex ministro dei lavori pubblici di Provenzano, Pino Lipari, che ha accettato di raccontare in aula alcuni dettagli importanti di quella stagione: “Ciancimino mi disse di avere consegnato il papello al capitano De Donno”. Il “papello”, ovvero il foglio con le richieste di Riina per fermare le stragi, che sarebbe arrivato all’ex sindaco tramite il medico di Riina, Cinà. I carabinieri hanno sempre negato di aver ricevuto quel documento. E hanno ribadito di avere operato soltanto per provare ad arrivare alla cattura di Riina, poi in effetti bloccato la mattina del 15 gennaio 1993.

Vito Ciancimino e suo figlio Massimo 

Eppure, anche l’allora colonnello Mori aveva usato l’espressione “trattativa”. Depose per la prima volta a Firenze, al processo per la strage dei Georgofili, subito dopo le prime dichiarazioni di Brusca. Il 27 gennaio 1998, l’ufficiale del Ros dichiarò: “Dissi a Ciancimino, ormai c’è un muro contro muro. Ma non si può parlare con questa gente?”.

Sullo sfondo, resta una domanda cruciale. Borsellino aveva scoperto la trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia? E per davvero fu ucciso perché voleva ostacolare quel dialogo segreto? La corte di Palermo ha scritto: “È una conclusione che trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie Agnese, poco prima di morire Borsellino le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi”. Tanti, troppi misteri ci sono ancora attorno alla morte di Paolo Borsellino.

Dell’Utri, il secondo tramite

Dopo i carabinieri, entra in scena un altro intermediario fra lo Stato e la mafia: Marcello Dell’Utri. È il 1993. Non sarebbe stato più Riina il terminale, perché ormai in carcere, ma Bernardo Provenzano. Mentre le bombe continuavano ad esplodere, fra Roma, Milano e Firenze, i boss avrebbero provato a mettere in campo un altro ricatto per ottenere i benefici che cercavano. “Dell’Utri ha fatto da motore, da cinghia di trasmissione del messaggio mafioso”, questa l’accusa. “Il messaggio intimidatorio fu trasmesso da Dell’Utri e recapitato a Berlusconi”. Ecco, cosa ha scritto la sentenza di condanna: “Nel 1994, Dell’Utri riuscì poi a convincere Berlusconi ad assumere iniziative legislative che se approvate avrebbero potuto favorire l’organizzazione”. Il presupposto è nei rapporti che Dell’Utri avrebbe intrattenuto con l’organizzazione mafiosa dal 1974 al 1992, e per queste relazioni è stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Dell’Utri ha già scontato sette anni, perché ritenuto il gran mediatore di un accordo fra Cosa nostra e l’imprenditore Berlusconi, che cercava protezione: prima, per la propria famiglia; poi, per i ripetitori in Sicilia. Ma questa è un’altra storia misteriosa.

Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi 

Berlusconi si è sempre avvalso della facoltà di non rispondere. Anche nel corso del processo d’appello per la ‘Trattativa Stato-mafia’. E la cosa non è piaciuta davvero alla moglie di Dell’Utri: “È meglio che non parlo – ha detto Miranda Ratti all’AdnKronos, il 25 settembre 2019 – meglio che non dico quello che penso. Ricordo solo che la testimonianza di Berlusconi era stata ritenuta decisiva persino dalla Corte di assise d’appello di Palermo. Qui c’è la vita di Marcello in gioco”. Una dichiarazione accorata, senza precedenti. Rafforzata anche da altre parole, attribuite dall’agenzia di stampa “all’entourage di Dell’Utri”: “Sorpresa, rabbia, incredulità. E una grandissima amarezza”. Che è successo fra i due amici di sempre? Un terremoto nella galassia che dagli anni Settanta ha tenuto insieme Berlusconi e l’allora segretario-amico tuttofare arrivato da Palermo, diventato il motore di tante attività imprenditoriali e poi uno dei fondatori di Forza Italia.

Dell’Utri si aspettava che Berlusconi smentisse l’assunto su cui si fonda la condanna di primo grado del processo ‘Trattativa’: di aver ricevuto per il suo tramite le minacce di Cosa nostra quando era presidente del Consiglio, nel 1994. Minacce di nuove stragi, i boss puntavano ad ottenere un alleggerimento del carcere duro e una legislazione più favorevole. Ma Berlusconi ha preferito il silenzio, trincerandosi dietro la sua iscrizione nel registro degli indagati della procura di Firenze, per concorso nelle stragi del 1993. Indagine che condivide con Dell’Utri.

Marcello Dell’Utri 

I giudici del processo di primo grado non hanno avuto dubbi: i padrini siciliani avevano già ricevuto garanzie precise da Marcello Dell’Utri. Ma, poi, un’intervista dell’allora vicepremier Maroni (messo in guardia dal procuratore Caselli) fece saltare la riforma del processo Berlusconi che avrebbe favorito i boss. È scritto anche questo nella sentenza di primo grado.

“Soltanto Silvio Berlusconi, quale presidente del Consiglio – dice la corte d’assise di Palermo – avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo quale quello che fu tentato con l’approvazione del secreto legge del 14 luglio 1994 numero 440 e quindi riferirne a Dell’Utri, per tranquillizzare i suoi interlocutori”, ovvero i mafiosi. I giudici ricostruiscono così: non solo “Berlusconi sapeva dei contatti fra Dell’Utri e Cosa nostra”. Non solo, il fidato Dell’Utri “riferiva quanto si volta in volta emergeva sai suoi rapporti con l’associazione Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano”, lo stalliere di villa Arcore negli anni Settanta. Il ‘decreto Biondi’, che ufficialmente si occupava di corruzione e concussione, in realtà conteneva una piccola devastante norma che modificava il codice di procedura penale. E l’arresto per i boss non sarebbe stato più obbligatorio in assenza di “esigenze cautelari”.

C’era anche un altro regalo per Cosa nostra: dopo tre mesi, i magistrati dell’antimafia avrebbero dovuto comunicare l’esistenza delle indagini ai diretti interessati. Un dono senza precedenti per le cosche siciliane, in quel periodo impegnate in una trattativa a largo raggio con lo Stato. Nel 1993, le bombe esplose fra Roma, Milano e Firenze avevano già portato l’allentamento del carcere duro, con la revoca di 300 secreti di 41 bis firmati dall’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso. Per l’accusa, un altro tassello della ricostruzione. L’ex Guardasigilli Conso ha però sempre respinto l’accusa, ribadendo che era stata una sua decisione “personalissima”, non suggerita da nessuno.

I boss puntavano ad ottenere di più. Programma ambizioso, ma in quel momento non appariva impossibile. Perché il nuovo presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, insediatosi l’11 maggio 1994, era anche l’imprenditore che continuava a pagare Cosa nostra, in virtù del “patto di protezione”. “I pagamenti sono proseguiti fino al dicembre 1994”, ha scritto il presidente della corte d’assise Montalto, citando le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giusto Di Natale. Dichiarazioni che erano già emerse nel processo per mafia contro Dell’Utri: “Una volta Pino Guastella mi disse di annotare 250 milioni di lire nel libro mastro. Disse: “Scrivi u sirpiente, che queste sono le antenne televisive si Berlusconi che si trovano a Monte Pellegrino”. Il serpente stava per il Biscione”. Parole che all’epoca del primo processo furono considerate troppo generiche in assenza si riscontri, e Dell’Utri venne assolto dalle accuse di mafia dopo il 1992.

Salvatore Riina, il capo di Cosa nostra morto il 17 novembre 2017 

Ma, adesso, c’è un “formidabile riscontro”, hanno scritto i giudici di Palermo. Nelle intercettazioni in carcere, Salvatore Riina parla proprio della stessa cifra: “A nuatri – a noi – ci dava 250 milioni ogni sei mesi. Duecentocinquanta milioni. Soldi che ci spettavano a nuatri”. Eccolo, il “formidabile riscontro”. Riina conferma le parole che tanti anni fa mise a verbale il cassiere del libro mastro del clan di Resuttana, quello che ha competenza sul Montepellegrino dei ripetitori.

Documenti e tracce del dialogo segreto

Ma quando è emerso per la prima volta un indizio della cosiddetta “trattativa”? Tre anni prima delle rivelazioni del pentito Giovanni Brusca ai magistrati, qualcuno ai vertici dello Stato aveva già scoperto il dialogo segreto fra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni. Proprio mentre era in corso, nel settembre 1993: un mese e mezzo prima, i boss avevano lanciato la loro ultima sfida a Milano, con un’altra bomba, dopo quelle di Roma e Firenze. La linea ufficiale dello Stato era quella della fermezza, soprattutto nelle carceri. Ma, intanto, pezzi delle istituzioni avrebbero trattato con pezzi della mafia, per arrivare a un compromesso. Una verità drammatica, allora inedita anche per i pm che indagavano sulle stragi Falcone e Borsellino: per la prima volta, veniva prospettata dal servizio centrale operativo della polizia, che aveva raccolto alcune importanti informazioni. Immediatamente, lo Sco mise in allerta la commissione parlamentare antimafia, allora presieduta da Luciano Violante, con un documento “riservato”.

Quel documento, però,  è rimasto chiuso per tanti anni negli archivi della commissione antimafia. È saltato fuori nel 2011, durante le indagini che i commissari di Palazzo San Macuto hanno condotto sul ’92-’93.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino 

“Protocollo 123G/731462/10/I-3. Roma, 11/9/1993. Oggetto: Attentati verificatisi a Roma, Firenze e Milano. Per quanto d’interesse si trasmette appunto riservato concernente gli attentati”. Firmato, il direttore del servizio. Su questo foglio, che porta l’intestazione dello Sco, c’è un timbro della commissione antimafia: “Arrivato il 14/9/1993”. “Obiettivo della strategia delle bombe – scriveva lo Sco – sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l’organizzazione: il ‘carcerario’ e il ‘pentitismo’ “. Non fu per un’intuizione investigativa che per la prima volta la parola “trattativa” finì in un documento dello Stato. Lo Sco precisava: “Nel corso di riservata attività investigativa funzionari dello servizio hanno acquisito notizie fiduciarie di particolare interesse sull’attuale assetto e sulle strategie operative di Cosa nostra”. Da qualcuno ben informato gli investigatori avevano saputo che dopo il fallito attentato a Maurizio Costanzo (a Roma, il 14 maggio), “i successivi attentati non avrebbero dovuto realizzare stragi – così scrivevano – ponendosi invece come tessere di un mosaico inteso a creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una “trattativa”, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa nostra anche canali istituzionali”.

L’attentato contro Maurizio Costanza 

In tre pagine, datate “Roma, 8/9/93”, c’erano già i protagonisti della trattativa: i boss e non meglio identificati “canali istituzionali”. Lo Sco (allora diretto da Nicola Simone, con Antonio Manganelli e Alessandro Pansa fra i più stretti collaboratori) proseguiva: “Per raggiungere l’obiettivo della ‘trattativa’ – secondo le fonti informative – la strategia del terrore potrebbe proseguire con analoghe iniziative criminali e, poi, con una seconda fase in cui verrebbero eseguiti attentati volti all’uccisione di personaggi impegnati nella lotta alla mafia”. Era un’altra drammatica realtà: dopo Milano, Cosa nostra puntava a far saltare in aria un pullman di carabinieri, a Roma. Ma poi, all’improvviso, i boss si fermarono.

Chissà se la nota dello Sco finì mai sulla scrivania del ministro della Giustizia Conso, che a novembre aveva fatto scadere 140 decreti di 41 bis. L’ennesimo mistero.

Stragi Falcone e Borsellino, ergastolo per Messina Denaro. Anche lui fra i mandanti delle bombe del 1992

 

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