Bari, guerra tra clan rivali: ecco le «verità» del pentito

«Busco tra i killer di Giuseppe: doveva morire». L’imputato: «Solo falsità»fonte: GIOVANNI LONGO – www.lagazzettadelmezzogiorno.it

I numerosi agenti della scorta lo guardano a vista e sistemano in aula i pannelli in modo che il grande accusatore non possa essere visto. Questione di sicurezza. Del resto, lui non è un pentito come tanti altri.

Lui è Domenico Milella, per tutti Mimmo, 41 anni, ovvero chi sta facendo tremare non solo il clan Parisi-Palermiti. «Sono un affiliato di settima, sopra di me ci sono solo Savino Parisi ed Eugenio Palermiti», precisa. Per sei lunghissime ore snocciola date, nomi, circostanze che solo in apparenza esulano dall’oggetto del processo, un pezzo importante della guerra per il controllo del traffico di droga che nella primavera del 2017 ha causato morti e feriti nel quartiere Japigia.

Una faida sulla quale i pm antimafia Fabio Buquicchio e Federico Perrone Capano che hanno coordinato le indagini della Squadra mobile di Bari hanno fatto luce. Quello in corso, è il processo davanti alla corte d’Assise di Bari (presidente Antonio Diella, giudice a latere Chiara Civitano). Unico imputato è Antonio Busco, collegato in videoconferenza, assistito dagli avvocati Alessandro Cacciotti e Savino Mondello del Foro di Roma, accusato dell’omicidio di Giuseppe Gelao avvenuto il 6 marzo 2017 e del ferimento nello stesso agguato di Antonino Palermiti, nipote del boss Eugenio.

Nel filone principale c’è anche la presunta risposta, l’omicidio di Nicola De Santis, vicino a Busco, che Milella ha ammesso di avere commesso (è a giudizio in abbreviato) accusando anche altri affiliati al suo gruppo. Anche su questo episodio Milella ha detto molto in aula. A partire dal fatto che l’obiettivo di quest’ultimo agguato, in realtà, era proprio a Busco, ma rimase ucciso De Santis.

Ma torniamo al lungo esame. Dal suo rapporto con Gelao (“eravamo fratelli, siamo cresciuti insieme”), sino alle ragioni del pentimento (“Questa vita non porta a niente, solo carcere e morte, tanto vince la magistratura”); dall’essersi autoaccusato di altri omicidi e ferimenti ai riti di affiliazione, il suo “intendo rispondere” alle domande della Procura, dei difensori e della Corte, è la premessa di un racconto criminale sulla Gomorra barese, con tanto di auto blindate e lampeggianti utilizzate per gli spostamenti in un clima da guerra. C’è persino un accenno sul business delle case popolari a Japigia.

Lo spunto a questo proposito è l’antefatto dell’omicidio Gelao, un altro delitto, quello di Francesco Barbieri ucciso a Japigia il 7 gennaio 2017. Un fatto di sangue che, diciamolo subito, Milella non voleva affatto. “Se non fossi stato detenuto, non sarebbe accaduto, non serviva, sarebbe bastato uno schiaffo”.

E qui una digressione è d’obbligo perché Milella, nel suo racconto, svela un retroscena: “Barbieri aveva chiesto aiuto a Eugenio Palermiti per trovare una casa popolare su Japigia”. A questo proposito, accenna a un fenomeno di cui lui stesso avrebbe approfittato. “Anche io ho “comprato” una casa popolare che a Japigia si “vendono” per 30-40mila euro”, ha detto.

Milella, assistito dall’avvocato Fabrizio Caniglia, parla anche del suo rapporto con il boss Savino Parisi. “Al culmine della guerra, suo figlio Tommi venne da noi per capire se le cose si potevano aggiustare”. Spiega nei dettagli che sullo stesso Busco era stata emessa una sentenza di morte e che per eseguirla, il suo gruppo criminale aveva persino installato un Gps sotto l’auto della moglie della vittima predestinata, scoprendo che “Tonio” si era rifugiato prima a Lecce, poi ad Anzio.

E pensare che i rapporti Busco-Milella, un tempo erano buoni. Minimo comune denominatore le partite di droga, cocaina in particolare, ma non solo, che Milella gestiva in grande quantità. “Abbiamo sempre fatto ottimi prezzi a Busco – ricorda il pentito. Lui acquistava 1-2 chili alla volta, noi 10-15”. Per dare un’idea, Barbieri, a detta di Milella, la prima vittima della faida di Japigia, Barbieri, “aveva un giro di 13-14mila euro alla settimana”.

Il rapporto scricchiola quando i ragazzi di Busco imperversano nel quartiere commettendo furti ai danni di negozi e attività commerciali. Cosa che a Milella non piace affatto. Altro motivo di frizione è la scelta di Busco di cambiare fornitore di droga, tanta droga.

Iniziò a comprarla da Gianni Di Cosimo, nel quartiere Madonella, che aveva un ottimo contatto con l’Albania”. Busco viene descritto come talmente potente da potere prendere a schiaffi un nipote di Savino Parisi “Con quel gesto ha tolto il rispetto”, chiosa.

Milella si sofferma soprattutto sull’omicidio Gelao. “Ho fatto quella strada 2-3 minuti prima. Un nostro amico ci avvisò che erano passati due scooter con quattro persone che indossavano caschi integrali. Mi dicono di stare attento. E vedo il cadavere di Gelao a terra, accanto alla sua vespa bianca”.

Partono le indagini parallele. Milella riferisce in aula su alcune voci di altri affiliati che sentono qualcuno del gruppo di fuoco gridare “Sciamanin’ Tonio!”, come viene chiamato Busco. Ritiene che le sagome siano quelle degli odierni imputati, tra cui Busco, accusati dell’omicidio. “Indossavano calzettoni sportivi sulla tuta per sigillare tutto il corpo per evitare anche di perdere un pelo”, limitando così possibili indagini sul Dna. “L’ho fatto anche io quando ho ucciso”, dice Milella.

Seguono ambasciate e appuntamenti disertati con Busco in cui ognuno dei due contendenti teme di essere ucciso. “Dovevamo eliminare Busco come vendetta per l’omicidio Gelao – sostiene Milella -. Utilizzavamo telefoni con schede intestate a prestanome, radio e vedette. A un certo punto, stando al racconto di Milella, Giovanni Palermiti (figlio di Eugenio, ndr) sonda persino la strada di assoldare dei killer ad Enziteto. “Era pronta una taglia da 2-300mila euro”. Busco ha paura. E scrive una lettera che suonava più o meno così “Questa guerra non la vince nessuno, chiudiamola io ho un conto aperto solo con Parisi”. Per Milella, un “segno di debolezza”.

Al termine dell’udienza, però, Busco mette le cose in chiaro dal suo punto di vista, prende la parola facendo dichiarazioni spontanee, ribadendo sostanzialmente il suo alibi (“Non ero lì”) e sminuendo il suo ruolo (“mai avrei potuto schiaffeggiare il nipote del boss Savino”). Insomma, “Non ho ucciso Gelao, il mio accusatore è mosso da rancore e non sono un affiliato”.

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