«Trani, i giudici puntavano al profitto»

L’accusa più grave che la Procura di Lecce muove all’ex pm Antonio Savasta non è la corruzione in atti giudiziari per aver truccato i fascicoli di indagine con l’obiettivo di favorire l’imprenditore Flavio D’Introno. Il reato che il pm Roberta Licci ritiene più pesante, nell’ambito della richiesta di condanna a dieci anni e 8 mesi avanzata in abbreviato nei confronti dell’ex collega, è la concussione: la «stangata» nei confronti dell’imprenditore Paolo Tarantini, cui la cricca della giustizia truccata ha estorto 400mila euro a fronte di un falso fascicolo per reati fiscali.

«Una totale assenza di coscienza civica prima ancora che professionale», secondo la Licci che ha parlato di «una situazione kafkiana» anche «a discapito di comuni cittadini assolutamente innocenti che si trovano coinvolti in un ingranaggio», in un «sistema», quello dei giudici di Trani, «che è orientato su una logica di profitto». Tarantini, ricco imprenditore di Corato, viene presentato alla cricca da D’Introno e – dice l’indagine – ne finisce schiacciato. Il falso avviso di garanzia che gli viene notificato, in cui «rediti» è scritto (per due volte) con una sola «d», sarebbe una roba da ridere se non fosse amaramente vero. E per questa vicenda Savasta risponde anche di truffa: «Si presenta a Tarantini – ha ricostruito la Licci nella requisitoria del 31 gennaio – chiedendo i 60mila euro con il pretesto di dover operare il figlio in America per un problema di un tumore». Non era vero, ma – dice il pm – «una cosa che fa senso solo a pensarci che sia stato utilizzato questo pretesto per ottenere 60mila euro ancora dal povero Tarantini». «Il povero signor Tarantini – ha proseguito la pm – a fronte di questa rappresentazione dice “io ci ho creduto perché per me alla fine”, e questa è una cosa che continuo a ricordare perché è rimasta molto impressa, “alla fine era un magistrato, un uomo dello Stato”».

La difesa di Savasta (l’avvocato Massimo Manfreda di Brindisi) replicherà nell’udienza del 6 marzo. Il gip Cinzia Vergine emetterà la sentenza il 30 marzo. L’accusa non crede alla genuinità della confessione dell’ex pm, ritenendo che abbia confermato solo ciò che non poteva negare: per questo gli è stata negata l’attenuante della collaborazione. La Procura, se è per quello, non crede nemmeno al pentimento di D’Introno (oggi in carcere a Trani per scontare la condanna per usura che ha in tutti i modi provato a evitare): «Non si dica che D’Introno per noi è una vittima. Non è una vittima, è un attore, è uno degli attori principali ma che si inserisce sicuramente in un contesto rodato». La sua collaborazione è dovuta – secondo l’accusa – solo «al concatenarsi degli eventi»: nella perquisizione a Savasta (nel frattempo si era trasferito a Roma) gli vengono trovati in casa fascicoli di Trani che riguardano D’Introno, a quel punto il magistrato avverte l’imprenditore «che la situazione sta precipitando. Quindi si innesta la collaborazione di D’Introno».

Ma l’accusa e definisce «cedevole» pure la difesa dell’altro ex pm Luigi Scimè, per il quale sono stati chiesti 4 anni e 4 mesi per corruzione e che smentisce tutto: «Ne parlano come uno di loro. E sono loro stessi, i sodali», ha detto a proposito di Scimè il pm Alessandro Prontera rilevando che tra gli ex magistrati di Trani (nel contesto è compreso anche l’ex gip Michele Nardi, tuttora in carcere, a giudizio nel processo ordinario) esisteva un «mutuo soccorso tra sodali». La Procura ritiene provata la «capacità di Nardi di incidere su Scimè», e l’intervento dell’ex pm per favorire D’Introno nella requisitoria del procedimento di primo grado per usura e nella vicenda dei sequestri, in cambio di soldi. Soldi di cui non c’è traccia, ma di cui parlano sia Savasta che D’Introno.

fonte: MASSIMILIANO SCAGLIARINI – www.lagazzettadelmezzogiorno.it

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