Stiamo mangiando pesci avvelenati dalle armi chimiche della Seconda guerra mondiale

Il professor Jacek Beldowski, oceanografo dell’Accademia Polacca delle Scienze, da anni studia le conseguenze dello “smaltimento” in mare degli stock di armi chimiche dei due conflitti mondiali. Iprite e altre sostanze altamente tossiche hanno contaminato fondali e fauna marina. Gli scienziati sanno e lanciano l’allarme, ma chi dovrebbe decidere di agire resiste, nel timore di conseguenze economiche (Gazeta Wyborcza) fonte: di Katarzyna Wlodkowska – www.repubblica.it

“Nel bacino di Bornholm, dove le femmine di merluzzo depongono la maggior quantità di uova, e nel canale di Skagerrak, sono state rilevate concentrazioni di arsenico del doppio superiori rispetto alle regioni inquinate dalle industrie. Questi dati hanno raggelato tutti” dice il professor Jacek Beldowski, oceanografo dell’Accademia Polacca delle Scienze.

Professore Jacek Beldowski, oceanografo dell’Accademia Polacca delle Scienze, lei mangia i pesci del Baltico?
“Per adesso li mangio ancora”.

Ancora?
“Sì, per ora non c’è ancora pericolo”.

E potrebbe esserci?
“Sì, potrebbe. Due anni fa abbiamo confermato che sostanze provenienti dalle vecchie armi chimiche scaricate nel Mar Baltico dopo la Seconda guerra mondiale stanno passando nei pesci. Si trattava di quantità appena rilevabili, innocue per il corpo umano. Comunque c’erano. 

Dove sono state rilevate?
“Nella carne di merluzzo. Si trattava in particolare di un prodotto derivante dalla degradazione del veleno Clark 1”.

In quale concentrazione?
“Del livello di un nanogrammo per grammo. Un po’ come sciogliere una goccia di colorante in una piscina”.

Quanta carne di pesce dovrei mangiare perché mi danneggi?
“Se anche non mangiasse nient’altro per un mese, non rischierebbe un avvelenamento. Ma non si tratta di questo. Il punto è che la concentrazione delle sostanze tossiche nei pesci sta aumentando. Non sappiamo come sarà la situazione tra qualche anno. Per questo motivo, abbiamo chiesto che il monitoraggio della presenza di sostanze nocive nei pesci effettuato dall’ispezione veterinaria comprenda anche i derivati tossici delle munizioni che giacciono sul fondo del Baltico. In risposta ci siamo sentiti dire che queste analisi sono complicate e costose”.

Quanto costose?
“Circa 225 euro per ogni pesce”.

Come ci sono finite le armi chimiche nel Baltico?
“Già nel 1925, 44 paesi, inclusa la Polonia, firmarono un accordo, il protocollo di Ginevra, nel quale si impegnavano a non usare più le armi chimiche. Si trattava di gas asfissianti, tossici e simili, e principalmente dell’iprite, meglio nota come gas mostarda. Ha un’azione altamente tossica e vescicante. Durante la Prima guerra mondiale è stata utilizzata massicciamente”. 

Mi sembra di capire che il protocollo non è stato poi rispettato.
“Iniziò poi la Seconda guerra mondiale e la maggior parte dei paesi coinvolti nel conflitto ricominciò a produrre queste armi, sebbene furono solo i giapponesi a usarle contro i cinesi. A guerra finalmente conclusa, bisognava fare qualcosa al riguardo. Si decise di smilitarizzare la Germania e di distruggere quasi tutto l’arsenale militare tedesco, incluse le armi chimiche. Il seppellimento nel mare sembrava l’opzione meno dannosa per l’ambiente”,

Dice sul serio?
“Oggi siamo in possesso di tecnologie che consentono lo smaltimento di queste sostanze, ma allora l’unica soluzione che furono in grado di ideare fu la loro sepoltura in mare o la dispersione nell’aria. È quello che fecero i belgi nella seconda metà degli anni Venti nelle aree militari lontane dai luoghi abitati. Di recente, questi terreni sono stati sottoposti a diverse analisi. La terra ha assunto una consistenza vitrea, interi spiazzi nella zona appaiono nudi, privi di vegetazione. Questo perché il vento ha trasportato queste sostanze tutto intorno. Dopo la Seconda guerra mondiale, si optò per mari e oceani con la convinzione che il materiale, immagazzinato in bombe o container, si sarebbe depositato sul fondo e una volta coperto di limo nessuno ne avrebbe più sentito parlare”.

 

 

Invece non è andata così.
“Purtroppo no. Le bombe aeree tedesche, le mine, i missili e i container con l’iprite furono distribuiti tra Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica. Gli americani affondarono la loro parte nell’Atlantico, nel Golfo di Biscaglia, a una profondità di 2,5 chilometri. Nessuno sa cosa sia successo alla parte francese, nemmeno gli stessi francesi. Di recente mi hanno chiesto se non avessi qualche ipotesi su dove potrebbero essere”.

 

 

E ce l’ha?
“Assolutamente no. Alla fine della guerra regnava il caos, molti documenti andarono distrutti. Quel materiale bellico potrebbe essere ovunque: nell’Oceano Atlantico, nell’Oceano Pacifico, nel Golfo di Biscaglia, nel Mar Baltico. Oppure in uno dei diversi mari del pianeta: il Mare del Nord, il Mar Bianco, quello di Ochotsk, di Kara, di Barents o del Giappone. Le armi chimiche vennero affondate ovunque”. 

 

 

E che ne hanno fatto i britannici della loro parte?
“Hanno intrapreso l’operazione ‘Davy Jones Locker’, rimandando in questo modo alla leggenda del mostro marino. Hanno caricato quegli arsenali su delle vecchie navi commerciali e poi le hanno affondate (all’inizio facendole in parte esplodere) nello Skagerrak, il canale di passaggio tra il Baltico e il mare del Nord”.

Di che quantità stiamo parlando?
“Di circa 150-175.000 tonnellate andate a depositarsi a una profondità che va dai 300 ai 600 metri. Ancor oggi là sotto giacciono i 64 relitti di quelle navi. Gli svedesi e i norvegesi sono un po’ preoccupati, i sonar rilevano le bombe non solo nei luoghi in cui le navi sono state affondate, ma anche tutto intorno. Due anni fa abbiamo raccolto alcuni esemplari di missina, un vertebrato che vive sul fondale marino. L’analisi ha riscontrato che circa l’80% dei campioni aveva sostanze derivate da armi chimiche nei loro tessuti”.

Ai russi è toccato il Baltico?
“Sì. Inizialmente, pianificarono la variante inglese, ovvero l’affondamento di intere navi, ma non avevano così tante unità da destinare alla distruzione. Così hanno deciso per seppellire direttamente in mare questo materiale. Hanno scelto l’abisso Landsort, nella zona più vasta del Mar Baltico dove si trova una pianura ricoperta di limo a una profondità media di 100-250 metri. Dopo aver affondato circa 2.000 tonnellate di munizioni, hanno abbandonato questa idea”.

Che cosa era successo?
“Le cose procedevano troppo a rilento. L’arsenale veniva stoccato nel porto di Wolgast sull’isola Usedom, al confine tra Germania e Polonia. Da lì all’abisso Landsort ci sono circa 200 miglia marine, grossomodo 400 chilometri. Cominciò a circolare la voce che l’equipaggio, per accelerare le operazioni, affondasse le armi durante il tragitto”.

Le gettavano in mare?
“Alcuni marinai riportarono delle ustioni maneggiando quel materiale. Si resero così conto di che cosa stessero trasportando e decisero di liberarsi del carico il più presto possibile. Questo fatto è stato poi confermato: sui fondali lungo le rotte seguite da questi convogli sono poi state trovate bombe, barili di iprite e proiettili. Così, si decise che sarebbe stato meglio continuare ad affondare il tutto in qualche luogo più vicino. L’opzione cadde sul bacino di Bornholm”.
 
Quanto materiale venne affondato?
“Oltre a 35.000 tonnellate. Il piano iniziale prevedeva l’affondamento delle armi chimiche in una piccola superficie di circa due miglia quadrate. Ma alla fine l’iprite venne sparsa su una superficie di oltre 85.000 ettari”.
 
Quando ebbe fine questa operazione?
“Nel 1947. L’iprite cominciò a venire a galla quasi subito”.

 

 

Come sarebbe?
“A volte veniva gettata in acqua all’interno di botti o di casse di legno che si depositavano lentamente sul fondo. Fin dai primi anni Cinquanta il mare cominciò a restituire questo materiale sulle coste di Bornholm o sul litorale polacco o svedese. Ma questo fatto veniva tenuto sotto silenzio”.
 
E perché?
“Per non creare antagonismi tra i paesi che costituirono il Patto di Varsavia e quelli che poi avrebbero dato vita alla Nato. E per nascondere che gli scarichi occasionali di quelle sostanze continuavano ancora nelle acque sovietiche, probabilmente nella zona economica svedese, cioè a nord del Gotland, oppure nelle acque territoriali tedesche al confine con quelle danesi. Anche la flotta della Germania Est affondò allora il materiale chimico trovato alcuni anni dopo la fine della guerra”.

Si continuò a farlo anche nelle acque territoriali polacche?
“Nel 1954 ebbe luogo un’operazione segreta. Nella fossa di Danzica, a 13 miglia dalla penisola di Hel, i tedeschi affondarono un arsenale che ufficialmente conteneva solo munizioni convenzionali: cartucce, razzi, mine. Solo che poco dopo la fine dell’operazione, sulla costa nei pressi di Jastarnia il mare rigettò una bomba di iprite, in tutto identica alla KC250 prodotta dalla Germania nazista. Qualche tempo dopo un’altra simile finì nella rete di un pescatore. I tedeschi erano assistiti dalla marina polacca. Con il tempo, cominciò a circolare la voce che il personale addetto a queste operazioni indossasse delle tute per proteggersi dagli agenti chimici. Tadeusz Kasperek dell’Accademia della Marina Militare lo ha descritto in un libro. Ad oggi, non c’è alcuna conferma ufficiale di questa operazione, ma mi sembra evidente che ebbe luogo”.

Quante volte la gente si è imbattuta nell’iprite nella costa polacca del Baltico?
“Ventitré volte tra gli anni Cinquanta e Settanta. L’ultimo caso si verificò nel gennaio del 1997 quando gli otto membri dell’equipaggio di un cutter W?A-206 riportarono gravi ustioni. Quel giorno pescarono circa trenta chili di pesce e circa sei chili di una sostanza che per colore ed aspetto assomigliava a un blocco di ambra. Dopo essere rientrati nel porto di Wladyslawowo la gettarono nell’immondizia e il giorno successivo si risvegliarono con ustioni alle mani e al volto. In ogni caso non c’è anno che i marinai danesi non facciano ancora simili ritrovamenti”.
 
Qual è stato l’incidente più grave mai verificatosi in Polonia?
“A Darlówek, nel luglio del 1955. Il mare aveva gettato una botte sulla spiaggia. Dei bambini in villeggiatura cominciarono a farla rotolare per gioco. Sfortuna volle che fossero in tanti, circa 120, c’era un’intera colonia. All’interno della botte era stoccata dell’iprite oppure dell’arsinöl, una componente delle armi chimiche dalla tossicità un po’ inferiore. I bambini riportarono delle ustioni, nove di loro risultarono gravi e due persero addirittura la vista”.
 
Questo fatto venne reso pubblico?
“Anche se i bambini vennero tutti ricoverati negli ospedali vicini e intervenne l’esercito per arare e cospargere di calce l’intera spiaggia, l’incidente venne riportato solo da un giornale locale in una breve nota. In seguito, se ogni tanto apparivano degli articoli si trattava di testi piuttosto brevi e diffusi solo dalle pubblicazioni scientifiche. Per molti anni non venne concesso alcun fondo né permesso per studiare le aree dove erano state scaricate quelle armi. Io stesso ho sentito parlare di Darlówek per la prima volta solo durante gli studi universitari, verso la metà degli anni Novanta. Ce lo raccontò il professor Krzysztof Korzeniewski durante un corso dedicato ai fondamenti della protezione ambientale. Aveva preso parte personalmente alla missione di decontaminazione del terreno. È da questo racconto che è nato il mio interesse per le armi chimiche. Ha cominciato a irritarmi il fatto che non si facesse nulla, che se ne parlasse così poco”.
 
Ci sono stati casi successivi?
“Quello di Darlówek è stato l’ultimo caso noto in cui il mare ha restituito dell’iprite sul litorale. Ma da allora in diverse occasioni i pescatori hanno riportato ustioni per blocchi di iprite finiti accidentalmente nelle loro reti. È accaduto a Kolobrzeg, Darlowo, Ustka e Wladyslawowo. È successo anche in Islanda, in uno stabilimento dove alcuni polacchi sono rimasti ustionati lavorando del pesce pescato nel Baltico. L’iprite è altamente corrosiva, può bruciare degli spessi guanti di gomma”.

In che modo sono rimasti ustionati?
“Un blocco di iprite si sbriciola con una certa facilità. Basta che dei piccoli frammenti della grandezza di un pisello finiscano in mezzo al pesce per danneggiare le mani”. 

Per quale ragione il mare ha smesso di restituire i container?  
“Si sono incollati al fondo limaccioso. Per molti anni si è pensato che questo non costituisse alcun problema poiché l’iprite non si scioglie facilmente. Ma questo non è del tutto vero.  L’argomento venne affrontato all’inizio degli anni Novanta. La Commissione di Helsinki istituì un gruppo di esperti che dovevano offrire una stima oggettiva del rischio. Vennero raccolti diversi documenti dagli stati baltici, si identificarono i siti di affondamento, si condussero indagini tra i pescatori. Nel 1995, il lavoro terminò con una relazione dettagliata in cui si affermava che non ci fosse alcun pericolo di contaminazione. Eppure il mare continuava a restituire l’iprite. Nel 2004 venne lanciato un primo progetto internazionale dell’UE di durata quadriennale. Una spedizione di scienziati salpò alla volta del bacino di Bornholm, là dove le munizioni erano state affondate dai russi. Cercavano il tiodiglicole. Non venne trovato e così stabilirono che non c’era alcun pericolo”.
 
Che cos’è il tiodiglicole?
“Un composto organico a base di zolfo usato nel processo di tintura dei tessuti. A quei tempi si sosteneva che l’iprite in immersione subisse un processo di idrolisi trasformandosi in tiodiglicole, quindi in un liquido incolore ma non dannoso”.

E invece?
“Il presupposto di questa valutazione chimica era sbagliato. Per questo non venne trovata alcuna traccia di tiodiglicole nel bacino di Bornholm. Ne abbiamo avuto la prova nel 2011 quando, come Accademia Polacca delle Scienze, siamo stati messi a dirigere il gruppo di ricerca ChemSea. Si trattava di un progetto molto grande dell’Unione Europea che coinvolgeva undici istituzioni di diversi paesi tra Polonia, Lituania, Finlandia, Germania e Svezia. Uno dei partner del progetto era l’Accademia Tecnica Militare di Varsavia. È risultato che alcuni suoi scienziati avevano già pubblicato nel 2001 sulla rivista scientifica ‘Journal of Chromatography’ i risultati dell’analisi di un blocco di iprite ripescato nel 1997 non lontano da Wladyslawowo. Nella sua composizione erano stati individuati 50 tipi di composti chimici, ma neppure una traccia di tiodiglicole”.

Nessuno ne sapeva niente?
“Lo sapeva il Comitato per le Ricerche Scientifiche governativo, ma i responsabili delle ricerche condotte fino dal 2004 per conto dell’Unione Europea non conoscevano la pubblicazione uscita sul ‘Journal of Chromatography’. In ogni caso alla fine abbiamo imparato la lezione. Ci siamo diretti verso le zone dove vennero affondate le armi e abbiamo iniziato a cercare tracce dei composti chimici dell’iprite”.

Dove?
“Prima al largo del Gotland. Abbiamo selezionato circa tredicimila oggetti che avrebbero potuto essere delle armi chimiche. Alla fine ne sono finiti in laboratorio circa duecento”.

Selezionato?
“Vede, ci sono moltissimi oggetti sul fondo del mare e sono coperti o impastati di limo. Ogni oggetto che sporge o si intravede va valutato prima di venire estratto. Potrebbe trattarsi infatti di un semplice proiettile. Là è impossibile scendere con i sommozzatori, per estrarre quegli oggetti si usano i robot. Soltanto per scansionare il fondale con i sonar ci sono voluti duecento giorni. Poi abbiamo passato sei mesi a ripulire e ad estrarre con i robot gli oggetti selezionati. Già allora, e stiamo parlando di nove anni fa, abbiamo trovato tracce riconducibili alla degradazione dell’iprite nel 40% degli oggetti estratti. Si trattava di otto diverse sostanze chimiche, estremamente pericolose poiché in grado di danneggiare il DNA umano. Da lì abbiamo navigato verso il bacino di Bornholm”.
 
Là dove i russi hanno scaricato 35.000 tonnellate. 
“Sì, la maggior parte delle armi chimiche che si trovano nel Mar Baltico. Si tratta di un’area importante dal punto di vista dell’ecosistema, perché è nel bacino di Bornholm che le femmine di merluzzo depongono la maggior quantità di uova. Lì, nei limacciosi sedimenti del fondale, abbiamo ritrovato moltissime tracce di tossine derivate dalla degradazione dell’iprite e di altre armi chimiche. Ce n’era traccia nell’80% dei campioni prelevati. Abbiamo anche dimostrato in che modo queste sostanze fuoriescano dai container. Fino ad allora si credeva che potessero spostarsi solo di un metro e mezzo dall’oggetto che le conteneva. Invece abbiamo trovato l’iprite anche a venticinque metri di distanza dal container da cui era fuoriuscita. Così abbiamo così sfatato un altro mito”.
  
Avete analizzato anche i pesci?
“Sì, i merluzzi, in particolare per quanto riguarda le malattie. I risultati sono stati molto allarmanti: abbiamo riscontrato danni genetici e disturbi enzimatici nei tessuti. Il tutto in grande quantità. In nessun altro luogo i merluzzi apparivano così malati”.   

Chi è che pesca nel bacino di Bornholm?
“Ho visto pescherecci polacchi, lettoni, danesi e svedesi”.  

Avete condotto analisi anche nelle acque territoriali polacche?
“Abbiamo trovato composti tossici riconducibili alla degradazione delle armi chimiche anche presso il porto di Gdynia-Oksywia e vicino a Jurata. Più o meno all’altezza del palazzetto presidenziale, alcuni chilometri dalla riva. E anche nella fossa di Danzica, a dimostrazione che nel 1945 i tedeschi in fuga ci hanno affondato delle armi chimiche. Una volta conosciuti i risultati di queste analisi, la Commissione di Helsinki ha capito che il loro rapporto del 1995 era basato su teorie e documenti obsoleti. Negli anni 1998-2008 anche i russi hanno fatto le loro ricerche. Lavorando nel bacino di Bornholm e nello Skagerrak, hanno riscontrato un’alta concentrazione di arsenico e dei suoi derivati, comunicando risultati che hanno raggelato un po’ tutti. Questo gruppo di sostanze chimiche reagisce facilmente con l’acqua e anche modeste quantità possono causare mutazioni genetiche nei pesci e in altri organismi marini. Il cibo proveniente da aree fortemente contaminate da arsenico dovrebbe essere eliminato dal mercato. Soprattutto se si considera che i russi hanno riportato concentrazioni di arsenico del doppio superiori rispetto alle regioni inquinate dalle industrie”.
 
Chi ha partecipato ai lavori per il nuovo rapporto?
“Tutti gli Stati baltici, anche se i danesi si sono attivati solo alla fine insistendo affinché anche il caso più piccolo fosse accuratamente documentato. Poi si sono opposti ai passaggi in cui il rapporto dichiara che il bacino di Bornholm nasconde la maggior parte delle armi chimiche seppellite nel Mar Baltico. Hanno polemizzato e fatto resistenza per ogni frase che affermasse che ‘le sostanze inquinanti costituiscono un pericolo’ pretendendo che fosse cambiata in ‘possono rappresentare una minaccia’. Insomma, a ogni passo hanno cercato di dimostrare che il rischio sia molto inferiore di quello che è”.

Ma come stanno le cose, rappresentano o possono rappresentare un pericolo?
“Adesso sappiamo che lo rappresentano, per quando i danesi non abbiano cambiato di opinione. Loro continuano a sostenere con convinzione che queste sostanze si decompongano. Così alla fine la richiesta di Germania, Lituania e Polonia che le armi chimiche vengano estratte è stata sostituita con la conclusione che l’estrazione sia solo una delle opzioni possibili. Il rapporto è stato pubblicato nel 2013. La Svezia non era molto entusiasta del recupero delle armi chimiche, ma non si è opposta. la Russia era scettica, la Danimarca invece fermamente contraria”.
 
Per quale motivo?
“Probabilmente avevano paura che la società danese si lasciasse prendere dal panico. Ogni volta che parlo con dei comuni cittadini danesi noto che non sono assolutamente a conoscenza del fatto che sul fondo del bacino di Bornholm sono depositate delle armi chimiche. Si stupiscono anche solo del fatto che possano esserci delle cose simili sui fondali marini. In Germania le cose sono andate diversamente, un’ondata di panico si è già diffusa attraverso i media. Nel febbraio 2019 i giornalisti sono stati invitati a Bremerhaven a una conferenza che riassumeva i risultati delle ultime analisi eseguite. Quando hanno sentito che l’Istituto per l’ecologia delle acque e della pesca tedesco aveva dato un’occhiata più da vicino alle platesse che vivono sul fondo della baia di Kiel riscontrando dei tumori nel fegato di circa il 25% dei campioni, sui media è scoppiato il putiferio. Il governo federale non poteva più ignorare il problema. Sono stati creati gruppi scientifici, trovati finanziamenti per i programmi di ricerca. Poi è stato avviato uno studio dettagliato dei fondali marini. In Germania esisteva già un gruppo di ricerca che studiava la minaccia rappresentata dalle munizioni scaricate nelle sue acque territoriali, ma operava solo a livello del Land dello Schleswig-Holstein. Dopo quella conferenza ha iniziato a funzionare a livello federale. Secondo il rapporto che questi gruppi di ricerca aggiornano di anno in anno ci sono 1,8 milioni di tonnellate di munizioni nelle acque tedesche, nel Mar Baltico e nel Mare del Nord. Questo permette di avere un’idea della dimensione del problema. Un anno fa anche il governo polacco ha istituito un gruppo speciale composto da rappresentanti di quasi tutti i ministeri. Il problema è solo che è difficile giudicare il suo operato. I lavori avrebbero dovuto iniziare a gennaio, ma non si ha alcuna notizia riguardo alla sua operatività”.  
 
A quali conclusioni sono arrivati gli scienziati tedeschi?
“I test di laboratorio hanno dimostrato che il trinitrotoluene disciolto nell’acqua danneggia il DNA del pesce. Inoltre, le munizioni – convenzionali o chimiche – rappresentano una seria minaccia per la navigazione, per la struttura delle turbine eoliche e la posa dei cavi sottomarini. Le esplosioni sono un pericolo reale. La bonifica dei fondali marini dovrebbe essere nell’interesse di tutti. Ciò è stato dimostrato nel 2010, quando durante la costruzione del gasdotto Nordstream sono stati trovati sei pezzi di munizioni chimiche. Per aggirare l’area del ritrovamento il gasdotto è stato esteso di 200 chilometri”.

Torniamo al rapporto della commissione di Helsinki del 2013. Che effetti ha avuto?
“Una delle principali conclusioni a cui si è giunti è stata la necessità di continuare i lavori e approfondire la conoscenza del materiale bellico che giace sul fondo del Baltico e…”.
 
Insomma non si è fatto niente.
“Guardi, se dipendesse da me, estrarrei almeno i container di iprite più pericolosi. Il problema è che nessuno vuole affrontare i costi e le responsabilità. Nel 2013 la Commissione di Helsinki ha istituito un nuovo gruppo di ricerca. Stanno stilando un rapporto ma non riescono a finire. O meglio, non riusciamo, dal momento che sono co-direttore di questo gruppo”.

Qual è il problema?
“Il testo del rapporto è pronto, ma deve ancora essere recensito e approvato da ogni scienziato che ha partecipato ai lavori”.  

Ma nel rapporto avete scritto nero su bianco che è necessario estrarre le armi?
“Il rapporto è un documento tecnico, scientifico. È un documento di natura interna, non pubblica. Non compete a noi dare delle raccomandazioni. Noi offriamo delle conclusioni scientifiche e sulla loro base si possono pianificare delle azioni specifiche. Bisogna solo volerlo fare”.

Ma quanti rapporti di questo tipo si possono scrivere?
“C’è un processo molto complesso in corso. Alla fine di aprile il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione che prevede un maggiore coinvolgimento dell’UE nel problema della bonifica dei fondali del Mar Baltico e soluzioni tecnologiche per l’estrazione di armi. In fondo è un passo nella giusta direzione. La domanda è cosa ne faranno i politici”.

Nel 2014, un anno dopo l’ultimo rapporto della Commissione di Helsinki, l’Agenzia alimentare svedese ha annunciato che le donne in gravidanza dovrebbero limitare il consumo di aringhe e salmone del mar Baltico. Il consumo annuale consigliato è di due o tre pesci all’anno.
“Questo è un altro problema, non si tratta delle armi chimiche. È piuttosto il rischio di ingerire insieme al pesce sostanze come diossine, mercurio e policlorobifenili. Sono nelle nostre acque, perché fino al 1975, quando fu firmata la Convenzione di Londra sul divieto dell’inquinamento marino, il Mar Baltico era trattato come una specie di bidone della spazzatura. Ci buttavamo dentro (e anche nei fiumi che vi sfociano come la Vistola o l’Oder) tutto ciò che capitava: rifiuti industriali, edili e domestici, oli di motore, escrementi animali. A tutto questo si aggiungevano fertilizzanti chimici utilizzati in agricoltura e prodotti fitosanitari che finivano nel Mar Baltico attraverso il suolo e le acque sotterranee. I pesci nel Mar Baltico contengono anche molto mercurio e altri metalli derivanti dalla combustione del carbone e dalle acque reflue dell’industria pesante”.

Ma allora quanto spesso possiamo consumare i pesci del Baltico?
“Direi una volta alla settimana. L’organismo deve avere il tempo di ripulirsi da queste sostanze”.

Il Rapporto della Corte dei Conti polacca del maggio 2020 recita: “I residuati bellici e le armi chimiche affondati nel mar Baltico possono portare a una seria catastrofe ecologica”.  
“Questo in effetti potrebbe accadere, per quanto non si sa quanto sia probabile. Insomma, non disponiamo di tutti i dati”.
 
Non si possono raccogliere?
“Non è così facile. Sono anni che discutiamo e litighiamo sul livello di corrosione di proiettili e munizioni. Alcuni scienziati affermano che il tutto si corroderà gradualmente e che queste sostanze penetreranno nell’acqua in un flusso lento e relativamente sicuro per la nostra salute. Altri sottolineano che il Mar Baltico non è omogeneo e che questo processo non sarà mai lo stesso ovunque”.
 
E qual è la sua opinione?
 
“La tesi che le sostanze chimiche fuoriusciranno dalle munizioni molto lentamente si basa su un’ipotesi traballante. Prima di tutto non stiamo affatto monitorando le armi affondate. Quando troviamo qualcosa, lo descriviamo e poi continuiamo la nostra navigazione. Nessuno torna indietro dopo qualche anno per vedere in che condizioni si trova quel dato oggetto. Quindi come è possibile presumere che attualmente ci siano, per dire, mille bombe che rilasciano sostanze tossiche con un certo flusso e che questa situazione resterà costante? Se anche fosse possibile offrire una stima precisa della situazione attuale, tra un anno i numeri potrebbero essere cento volte di più. Sul fondo del Baltico stanno arrugginendo circa 300.000 tonnellate di munizioni. Se tutta l’acqua del Baltico fosse pompata fuori, nelle zone dei seppellimenti vedremmo mine o bombe all’iprite ogni cento o duecento metri”.

Allora che cosa si sa con certezza?
“Che le munizioni sepolte in mare, contrariamente a quanto si pensava, non sono affondate, o non del tutto, nel fondale limaccioso. Continuiamo a rinvenire bombe ordinarie o chimiche sulla superficie dei sedimenti. L’iprite, per quanto sia scarsamente solubile in acqua, va incontro a un processo di degradazione e non c’è ombra di dubbio che penetri nell’ecosistema. E non si può neppure negare che i prodotti della degradazione delle armi chimiche si accumulino negli organismi marini. Le sostanze esplosive come il trinitrotoluene si degradano in composti cancerogeni e l’iprite in sostanze chimiche cancerogene, mutagene e neurotossiche. È indubbio che tutto questo si accumuli nei crostacei, negli organismi semplici e forse anche le larve dei pesci ne sono colpite. Un pesce adulto contaminato sopravvive, anche se molto probabilmente prima o poi si ammalerà, ma certamente le sue uova non si svilupperanno. Se a questo aggiungiamo il fondo contaminato, dove vivono passere, limande e platesse abbiamo tutte le condizioni di una potenziale catastrofe ecologica”.   

Nel febbraio di quest’anno, l’eurodeputato di Diritto e Giustizia Kosma Zlotowski ha sollevato un altro problema, quello dei relitti tedeschi della Seconda guerra mondiale. Si tratta, tra l’altro, di una nave cisterna affondata nella Baia di Puck, dalla quale continua a fuoriuscire materiale inquinante.
“Sì, la nave ‘Stuttgart’. Solo che si trova piuttosto dalle parti di Oksywie. La fuoriuscita di carburante è iniziata subito dopo la fine della guerra, ma i primi risultati delle analisi sono stati pubblicati solo nel 1999”.   

Una ricerca dell’Istituto marittimo di Gdynia condotta nel 2015 mostra che da allora l’area di contaminazione è aumentata di ben cinque volte e oggi si estende su oltre 400.000 metri quadrati. La macchia diventa più grande.
“Lo ‘Stuttgart’ portava nei suoi serbatoi un combustibile sintetico, e precisamente il mazut, un olio combustibile pesante. Alle fine della Seconda guerra mondiale non c’era più petrolio disponibile e il combustibile si produceva dal carbone. Si tratta di una sostanza tremendamente tossica per la flora, la fauna e l’essere umano. Quando si smuove il limo nella zona contaminata si vede letteralmente scorrere il mazut. Oltretutto sul fondo del golfo di Danzica sta corrodendo la nave cisterna ‘Franken’”.

Qualcuno se ne sta occupando?
“Direi di no. Secondo alcuni esperti il ‘Franken’ sarebbe vuoto, altri dicono che sia pieno di combustibile. Per scoprire la verità sarebbe necessario fare una serie di trivellazioni”.
 
E cosa stiamo aspettando?
“Stiamo parlando di una dozzina di serbatoi e una sola trivellazione costa circa 22 mila euro. Oltretutto è una cosa che va fatta in condizioni di sicurezza per evitare la dispersione di carburante nel mare. La profondità a cui si trova il relitto implica l’utilizzo di una strumentazione costosa e di una squadra di esperti sommozzatori. Insomma, nessuno muore dalla voglia di intraprendere un’azione del genere”.
 
Ma lì si pesca il pesce che poi mangiamo.
“Siamo un po’ rassicurati dal fatto che test condotti nel 2004 nell’area del relitto della nave ‘Stuttgart’ hanno evidenziato tracce esigue di mazut nel tessuto dei pesci. Quindi si possono consumare. È comunque certo che i pesci si ammalano spesso e sono preda di vari parassiti. A causa dell’inquinamento i pesci sono più deboli, le loro difese immunitarie appaiono ridotte”.
 
Ma anche questi parassiti ci finiscono nel piatto?
“Su questo non mi vorrei esprimere”.

Finiscono nei prodotti industriali a base di carne di pesce?
“Lo ha detto lei”.

Due anni fa avete riscontrato un accumulo di iprite nei tessuti dei pesci nello Skagerrak.
“Infatti è così”.

E perché non dovrebbe essercene anche nei pesci della baia di Puck o di Danzica?
“Infatti potrebbe essercene. La cosa andrebbe verificata”.

Non riesco a comprendere tutti questi indugi.
“In fondo siamo tutti un po’ tutti come quei danesi. L’Istituto Marittimo di Gdynia fin dal 2007, ovvero sei anni prima degli svedesi, aveva riferito che nei salmoni e nelle aringhe pescati nel Baltico vengono occasionalmente rilevati limiti di diossina superiori alla norma. E aveva suggerito che i consumatori andrebbero informati sui pericoli che corrono. Senza contare che la Commissione Europea ha imposto tale obbligo a tutti gli stati membri. Insomma, lei dovrebbe trovare un simile avvertimento su tutte le confezioni dei prodotti ittici o nei negozi”.

Ma non trovo nulla.
“Stiamo toccando una questione che potrebbe causare panico e danneggiare gli interessi di molte persone. Gli scienziati possono parlare solo di fatti. I politici, quando si affronta la questione con loro, sembrano rendersi conto della scala del problema. Solo che poi non prendono alcuna decisione concreta. Perché qualcosa cambi è necessaria una forte pressione sociale. Nel 2002 ho pubblicato con mia moglie un articolo sul mensile ‘Wiedza ilycie’. Era un testo dove parlavamo delle minacce, puramente teoriche, che le armi chimiche sommerse rappresentano per l’ambiente e gli esseri umani. Il testo è stato poi ripubblicato dal settimanale ‘Angora’. Pochi giorni dopo il sindaco di una città marittima polacca ha inviato ai nostri superiori una lettera molto dura. Scriveva che se la penisola avesse conosciuto un drastico calo del turismo e qualcuno fosse finito sul lastrico la colpa sarebbe stata solo e soltanto nostra. In sostanza tutto si riduce ai soldi e alla paura delle conseguenze. Noi cerchiamo solo di spiegare che non possiamo restare indifferenti. È necessario analizzare i pesci che mangiamo, dobbiamo lavorare sulla tecnologia che – in caso di una reale minaccia – ci consentirà di estrarre efficacemente dal fondo del mare le armi chimiche o gli oli tossici. Perché tra qualche anno potremmo ritrovarci alle prese con una drammatica corsa contro il tempo”.

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