Il 14 marzo 1962 un mercantile partito dall’Italia scompare al largo della Tunisia senza lasciare traccia. A bordo venti marinai. Le cui famiglie ancora indagano: che fine hanno fatto? – fonte: Stefania Parmeggiani – www.repubblica.it
Venti marinai. Diciannove italiani e un gallese. A sessant’anni dalla scomparsa della Hedia, i fantasmi sono tornati. E pensare che l’Italia se ne era dimenticata in fretta, liquidando quella storiaccia del mercantile disperso nello stretto di Sicilia come un naufragio. Invece, c’è ancora chi si ostina a fare domande.
“Per venti persone non si può fare una guerra“. Accursio Graffeo ripete la frase che da generazioni tormenta la sua famiglia. È un signore di origine siciliana, perito elettrotecnico a Bergamo, nipote del marinaio di coperta Filippo. Sostiene che venne pronunciata nel 1963 a Roma dall’allora presidente del Consiglio Amintore Fanfani. Voleva convincere sua nonna Rosa e gli altri famigliari dell’equipaggio a lasciar perdere. Si dovevano mettere l’anima in pace: il mercantile era affondato il 14 marzo 1962 durante una burrasca nelle vicinanze dell’arcipelago tunisino di La Galite. Solo che quelli insistevano e dicevano che non si cola a picco senza lasciare traccia, che i loro parenti erano vivi e una foto lo dimostrava. Incalzato dalla disperazione di Rosa e degli altri congiunti, a Fanfani sfuggì quella frase. A cosa si riferiva?
Ultimi fuochi tra Parigi e Algeri
Un bel passo indietro. Siamo nel 1962, dopo sette anni e quattro mesi di massacri, terrorismo e napalm, Francia e Algeria sono pronte per il cessate il fuoco. Gli accordi di Evian saranno firmati il 19 marzo, la guerra più sanguinosa della decolonizzazione africana sta per concludersi, nel Mediterraneo c’è grande agitazione. Riassume Graffeo: “La Hedia è una vecchia nave mercantile del 1915, appartiene a una compagnia di Panama e batte bandiera liberiana, ma tutti sospettano che il vero armatore sia l’agente italiano Giuseppe Patella. Il 16 febbraio salpa da Ravenna carica di concimi chimici, diretta in Spagna. Tutto bene fino a Tarragona e poi Burriana. A Casablanca imbarca quattromila tonnellate di fosfati e il 10 marzo parte per Venezia. Dove non arriverà mai”. C’è mare forza otto, ma altre navi, nel Canale di Sicilia, resistono alle onde alte sei metri: soltanto la Hedia sparisce. Giù a picco? Non si sa.
“Il 20 marzo, ben sei giorni dopo l’ultimo contatto radio, iniziano le ricerche, ma la Hedia è ormai un cargo fantasma”. Perché non ha lanciato il mayday? Perché non sono stati trovati bidoni, tavolame, corpi e soprattutto nafta? I giornali scrivono che in quei giorni nel Mediterraneo c’erano navi militari, soprattutto francesi. Ipotizzano che la Hedia sia stata dirottata dalla tempesta sulle rotte dei cargo che portano armi ai ribelli algerini del Fronte di liberazione nazionale (Fln) e una nave da guerra, per sbaglio o per eccesso di zelo, l’abbia mandata a picco con un siluro magnetico. Difficile da credere: è mai possibile un errore di tali proporzioni? A Ustica mancano 18 anni.
Una foto per sperare
Romeo Cesca, padre di uno dei marinai dispersi, interpella un ufficiale suo amico che gli risponde: “L’equipaggio è salvo. Per gravi motivi di sicurezza non posso fare il nome del luogo in cui si trova, ma è salvo!“. Sapeva qualcosa? Graffeo è convinto di sì. Arriva settembre, Il Gazzettino di Venezia pubblica una telefoto scattata dal reporter inglese Jim Howard. La didascalia spiega che sono prigionieri europei liberati nel giardino del consolato francese di Algeri. La signora Maria Balboni, moglie del cuoco della Hedia, si sente mancare: “Quello è mio marito!”. Parenti e amici riconoscono nella stessa foto cinque tra i marinai imbarcati. “Mio zio Filippo è visibile quasi per intero, impossibile sbagliare. E poi sbagliano tutti assieme?” si chiede Graffeo. Un giornalista veneziano, con l’aiuto del nostro console, rintraccia in Algeria un certo Jean Solert, pied noir presente nella foto della speranza. Lui scuote la testa: non ci sono italiani, quello che credete essere Graffeo in realtà si chiama Pierre Cocco e gestisce un caffè ad Algeri. I clienti del bar confermano, ma lui nel frattempo ha lasciato il Paese. Qualcosa di simile accade anche con un secondo presunto marinaio. Faccenda chiusa, i parenti sono vittime di psicosi collettiva, la Hedia sparisce dai giornali e l’Italia si dimentica in fretta dei suoi fantasmi. Non le famiglie, che continuano a indagare, ognuna con i propri mezzi, a volte insieme, a volte no.
“Cinquant’anni dopo la scomparsa, digito su Google il nome di quello zio che era sempre stato al centro dei ricordi della mia famiglia. M’imbatto in un articolo sulle vittime dimenticate della Hedia. Sento che devo fare chiarezza, trovare la verità“. Graffeo contatta gli altri famigliari e la maggioranza decide di aiutarlo. Alla bibliografia di quella brutta storia si aggiunge il libro Hedia, ultimo messaggio 10:00 N807 del giornalista siciliano Gianni Papa. Nei circoli dei marinai fa molto rumore: l’idea che un mercantile di 2.300 tonnellate di stazza lorda sia colato a picco senza chiedere aiuto e senza lasciare tracce non li ha mai convinti. Possibile che il relitto non sia ancora stato trovato?
La morte di Mattei
Dai fatti alle ipotesi. Per Graffeo e Papa si tratta di un sequestro finito male: la Hedia trasporta armi destinate al Fln (e questo spiegherebbe perché in una lettera del marinaio Filippo si parla di uno scalo non previsto a Tangeri, in quegli anni un “porto franco”); a finanziare il viaggio è Enrico Mattei, autore del miracolo economico degli anni Sessanta, sostenitore dell’indipendenza algerina che qualche mese dopo morirà in un misterioso incidente aereo. Graffeo insiste: “I francesi sequestrano o affondano la nave. I marinai vengono fatti prigionieri e divisi in due gruppi, forse si cercano prove del coinvolgimento dell’Italia, forse è un messaggio per Mattei, ma dopo la sua morte le cose si mettono male: quegli uomini non possono certo tornare a casa e raccontare cosa è successo alla Hedia“. Gianni Papa analizza sei diversi scenari e nelle conclusioni ammette che si tratta di congetture: “Se ce ne sono altre valide, mi auguro che questo lavoro le faccia venire fuori“. Chiedo a Graffeo che cosa si aspetta sessant’anni dopo. Risponde: “Quello che è doveroso per uno Stato democratico: la verità“.
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