Dopo tanti rinvii siamo giunti al traguardo di un lungo processo contro Pino Amato. La procura generale, rappresentata da Giuseppe Scelsi, ex sostituto procuratore della Dda di Bari e ora alla Corte d’Appello, ha chiesto per Pino Amato la conferma della condanna per voto di scambio, ed altri reati, inflitta in primo grado dal Tribunale di Trani il 24 maggio del 2010 con 3 anni di reclusione e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici. La stessa richiesta di conferma della condanna, è stata avanzata anche dalle parti civili, fra cui il Comune di Molfetta, rappresentato dall’avvocato Maurizio Masellis e l’avv. Bartolomeo Morgese, legale di Matteo d’Ingeo, coordinatore del movimento civico “Liberatorio Politico”, parte civile che in primo grado non vide riconosciuta la richiesta di risarcimento. Invece chiedono l’annullamento della sentenza di primo grado i tre imputati Amato, Guido e Mezzina, condannati nel maggio 2010 rispettivamente a tre anni, un anno e quattro mesi, due mesi e venti giorni di reclusione (la pena di Amato fu condonata dall’indulto; a quelle di Guido e Mezzina fu concessa la sospensione condizionale e la non menzione della condanna).
Voto di scambio il reato principale contestato all’ex presidente del Consiglio comunale, e assessore, per cui il pm Giuseppe Maralfa chiese e ottenne la condanna con l’accusa di aver messo in atto una presunta rete di contatti a fini elettorali. Patteggiarono, e quindi il loro procedimento fu definito in udienza preliminare, il tenente Vincenzo Zaza e l’ufficiale Gianfranco Michele Piccolantonio, entrambi nella Polizia municipale, condannati rispettivamente a tre e un anno di reclusione (anch’essi beneficiarono dell’indulto).
I fatti che portarono alla condanna si riferiscono al 2005, epoca in cui Amato, eletto nelle liste di Forza Italia, ricopriva la carica di assessore alla Polizia municipale nella giunta di Tommaso Minervini. Le indagini nacquero da alcune minacce ricevute dallo stesso politico, quando ancora ricopriva la carica di presidente del Consiglio comunale. Furono avviate ricerche che non riuscirono a identificare gli autori dei messaggi, ma al contempo portarono gli inquirenti alla formulazione delle accuse.