Roma, 21 febbraio 2012: Legambiente e C.N.B.A.C. – Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche presentano una giornata di studi intitolata “Armi chimiche, un’eredità ancora pericolosa: mappatura, monitoraggio e bonifica dei siti inquinati dagli ordigni della II Guerra Mondiale” presso il Senato della Repubblica Italiana.
Interventi a cura di:
Alessandro Lelli (C.N.B.A.C.),
Fabrizio Giometti (C.N.B.A.C.),
Matteo D’Ingeo (C.N.B.A.C.),
Luigi Alcaro (I.S.P.R.A.),
Nunzio Capozzi (Centro Interforze N.B.C.),
Antonello Massaro (Centro Interforze N.B.C.),
Paolo Orabona (Assobon),
Giannantonio Massarotti (esperto di bonifiche),
Rossana Cintoli (A.R.P.A. Lazio),
Francesco Ferrante (Partito Democratico),
Roberto Della Seta (Partito Democratico),
Elisabetta Zamparutti (Partito Democratico),
David Favia (Italia dei Valori),
Roberto Rao (Unione di Centro)
Stefano Ciafani (Legambiente).
Modera il convegno Enrico Fontana, direttore di “Nuovo Paese Sera”.
Estratti della lettera di Gianluca Di Feo al C.N.B.A.C., in occasione del convegno del 21 febbraio 2012:
“In un Paese narcotizzato da una decennale abitudine a rimuovere i problemi, occultandoli dietro una muraglia di chiacchiere, il C.N.B.A.C. ha aperto una crepa, creando una rete che sta riuscendo a tenere insieme associazioni molto diverse, per orientamento politico, storia, collocazione geografica e tradizione. Oltre a proseguire nella sensibilizzazione, è necessario riflettere sui modi per arrivare a localizzare gli ordigni chimici ancora presenti, stabilirne la pericolosità, procedere alla bonifica.
In tutto il resto del mondo, il dibattito è intenso. Gli U.S.A. hanno da poco festeggiato la distruzione di tutti i depositi di vecchie armi chimiche presenti sul loro territorio. Ora si sta cominciando a porre la questione delle bombe scaricate negli oceani – com’è accaduto da noi davanti a Pesaro, ad Ischia e alle coste pugliesi – e degli impianti produttivi mai bonificati – come sul Lago di Vico, a Melegnano, a Massa e in altre località italiane. Ma altre nazioni in tutto il mondo si stanno impegnando per fare pulizia di questi micidiali residuati: dal Belgio alla Germania, dal Giappone all’Australia, dalla Danimarca all’Albania, i programmi di monitoraggio e disinnesco vanno avanti rapidamente.
E l’Italia? Finora le autorità nazionali e territoriali non sembrano aver fatto molto. L’Esercito prosegue nella distruzione delle munizioni accumulate nell’impianto di Civitavecchia, con fondi sempre più esigui, mentre la Marina ha condotto alcune campagne nelle acque pugliesi legate a progetti infrastrutturali. Ma nulla si sta facendo per definire la pericolosità dei veleni rimasti nei poli produttivi militari ed industriali, da Ronciglione a Melegnano, da Massa a Foggia, né per determinare la situazione delle discariche sottomarine di ordigni.
La pericolosità degli ordigni è stata dimostrata in Puglia dallo studio dell’I.C.R.A.M., l’unico mai condotto, ma le istituzioni non si muovono. In Italia, nonostante l’impegno del C.N.B.A.C., le istituzioni sono ancora all’anno zero: manca persino un censimento nazionale dei luoghi che sono stati legati all’attività chimica e batteriologica militare. E, quindi, non c’è alcuna possibilità di capire se un terreno o un pozzo possano ancora contenere residui di iprite, arsenico o altri veleni. Un esempio: sto ricostruendo la storia del principale centro di stoccaggio e addestramento chimico usato dalle forze armate statunitensi in Europa meridionale: si trovava in un aeroporto della Puglia ed è stato attivo per oltre due anni dal 1944 al ’47. Su questi terreni sono state provate armi all’iprite e forse anche all’arsenico. E oggi, invece, ci sono coltivazioni intensive di ortaggi, mentre i magazzini della base sono stati trasformati in un centro di accoglienza per immigrati: tutto senza mai controllare se ci siano o meno tracce di contaminazione chimica.
L’Italia si trova in una situazione particolare, ma che offre degli spunti concreti. Nel caso di Pesaro, ad esempio, le armi furono gettate nell’Adriatico dalle truppe tedesche che nel 1944 erano una forza di occupazione, poiché quello internazionalmente riconosciuto era il governo monarchico del Sud. E quando gli Americani hanno scaricato in mare i loro arsenali si sono mossi senza concordare le loro iniziative con le autorità italiane: sono operazioni condotte dopo la fine del conflitto e prima della nascita della N.A.T.O.
Io credo che un’iniziativa legale nei confronti delle potenze che hanno creato queste discariche vada quantomeno ipotizzata. E che sia opportuno affrontare anche il tema della responsabilità legale e morale degli inquinatori…”.
Una produzione “Ecosin” a cura di Chiara Bellini, Massimo De Rocchis, Francesco Scura ed Isabella Cirillo.
Il logo “Ecosin” è di Giovanni Fallacara.
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