Pearl Harbor barese: «Io, unico superstite»

Antonio Borsari

corrieredelmezzogiorno.corriere.it/bari

Tornare con la mente a quei ricordi è una sensazione angosciante, intensa e ancora molto dolorosa. Lo è nonostante siano trascorsi settanta anni. Settant’anni dal 2 dicembre del 1943 quando il porto di Bari durante la seconda guerra mondiale, fu bombardato dalla Lutwaffe tedesca. Un attacco che costò la vita a oltre mille persone. La seconda Pearl Harbor della storia. L’ammiraglio e storico americano Samuel Eliot Morrison definì così quel bombardamento. Le immagini, l’odore acre del fumo e le disperate urla di chi chiedeva aiuto sono vive nella memoria di Antonio Borsari, 88 anni, sopravvissuto a quella strage. L’unica persona oggi ancora in vita che racconta gli attimi drammatici vissuti quel lontanissimo 2 dicembre. Nato a Cento, in provincia di Ferrara, il 26 ottobre del 1925, vive a Bari da sempre. Pur se il suo lavoro l’ha portato a viaggiare spesso su e giù per l’Italia. Ad arredare i negozi storici delle più importanti città italiane. Anche a Bari le boutique di via Sparano tra gli anni ’60-’80 hanno portato la sua firma. Molte ormai hanno chiuso perché non sono sopravvissute alla crisi.

Amante della buona cucina e ottimo cuoco, è proprio intorno ad una tavola imbandita di delizie da lui stesso preparate, che Antonio Borsari, Tonino per gli amici, spesso racconta le sue esperienze di vita riuscendo a catturare per ore l’attenzione dei suoi commensali, anche di quelli molto giovani. Perché le sue storie sono così ricche di dettagli, di espressioni particolari, di ricordi nitidi che perdere l’attenzione o il filo conduttore del racconto è pressoché impossibile. «Pur essendo nato a Cento ero residente a Bari, iscritto nelle leve militari dell’Aeronautica e non potendo espletare il dovuto servizio militare, fui militarizzato a Bari con l’assunzione come checker (ispettore del carico delle navi, ndr) con prestazione in castle siding, ovvero nella zona del castello. Avevo appena compiuto 18 anni». Inizia così il suo ricordo. La mente viaggia velocissima e, in pochi secondi, ha già ripercorso i momenti che hanno segnato la sua vita. Momenti mai dimenticati. «La zona militare del porto di Bari iniziava dal primo molo a destra e terminava con la penisola di San Cataldo, la zona del faro, la superficie della Fiera del Levante e tutto il lungomare. Lì – spiega Borsari – erano installate le batterie antiaeree, i fusti con i relativi fumogeni e, a cintura di quello spazio portuale i palloni frenati. Tutta quella zona militarizzata aveva il nome di “castle siding” e al giungere delle tenebre era sempre illuminata a giorno». Il tono di voce cambia ora. La voce è più vibrante. Perché la sua mente si avvicina al 2 dicembre e torna a quel ragazzo di 18 anni che quella mattina al porto stava svolgendo le sue solite mansioni. Sembrava una giornata come le altre.

«Era arrivato un convoglio di 17 navi liberty, avevano attraccato ai moli e stavano per iniziare le consuete operazioni di sbarco. Quella mattina nonostante il freddo invernale c’era un bel sole e ad un tratto nel cielo è apparso un ricognitore tedesco che probabilmente ha fotografato la posizione delle navi. Poi è andato via. Non ci fu nessun allarme». Quel 2 dicembre al porto di Bari, considerato strategico come centro di approvvigionamento dei rifornimenti per l’armata, c’erano una quarantina di navi e si lavorava alacremente per vuotarle dei loro carichi, preziosi rifornimenti per il fronte. Il comando della Luftwaffe intenzionato a rallentare l’avanzata della Armata alleata verso nord, aveva pianificato un attacco contro le navi che giornalmente attraccavano a Bari attendendo il momento propizio per intervenire. Un attacco che fu fissato per i primi giorni di dicembre in quanto la luna crescente avrebbe consentito una sufficiente visibilità ai piloti ma reso meno identificabili gli aeroplani pronti a bombardare. «Il cielo era sereno, il porto era illuminato a giorno. Erano all’incirca le 20 – ricorda Borsari – sembrava una serata come tante. Poi all’improvviso ecco gli aerei tedeschi. Arrivarono in picchiata. Ogni aereo aveva un suo preciso obiettivo. Era tutto calcolato. In quel momento l’inferno. Esplosioni, fuochi e fumo dappertutto. Fu il finimondo. Tutte le 17 navi furono colpite in pieno. Un’apocalisse. Tutto in un attimo. Non ci fu il tempo di attivare la contraerea, neppure l’allarme».

Lo stormo di aerei arrivò a Bari alle 19.30. Le navi furono sorprese dalle bombe tedesche. Alcune bruciarono, altre affondarono e quelle che non furono colpite dagli ordigni erano talmente vicine alle altre che finirono per essere comunque distrutte. Alcune nella stiva contenevano esplosivi e le deflagrazioni furono talmente violente che i vetri delle case di mezza Bari furono distrutti. Tra quelle navi c’era anche la statunitense John Harvey che trasportava segretamente cento tonnellate di bombe con l’iprite. Da quella nave fuoriuscì una grande quantità di sostanze tossiche che contaminò le acque del porto, provocando centinaia di vittime. «In quella bolgia di fuoco – continua a raccontare Borsari – sentivo fortissimo l’odore acre delle fiamme, la cortina fumogena che si era sviluppata rendeva impossibile la visibilità. Solo la luminosità creata dagli incendi sulle navi colpite dagli incursori tedeschi, dava la possibilità di capire la portata dell’enorme disastro che si era appena consumato sotto i miei occhi». L’attacco finì alle 19 e 45 e causò l’affondamento di 17 navi, numero identico a quello provocato dall’aviazione giapponese nel porto di Pearl Harbor. Solo 2 furono gli aerei persi dai tedeschi. Uno fu visto cadere nelle acque del porto. «Rimasi ferito ad un ginocchio, mi medicarono e poi i militari inglesi vollero che mi allontanassi subito da quell’inferno. Ancora sono loro grato per questo. Morirono tantissimi militari. Il mio pensiero personale – conclude la sua storia – va proprio alle vittime e un grazie di cuore alle persone che mi hanno dato la possibilità di salvarmi. Grazie Fred di Liverpool. E scusa se non ricordo più il tuo cognome».

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