Avrebbe dovuto celebrarsi ieri l’udienza fissata dinanzi alla Prima sezione penale della Corte Suprema di Cassazione di Roma del processo per l’omicidio della 23enne molfettese Annamaria Bufi, trovata morta il 3 febbraio 1992.
La discussione del ricorso è stata fissata per il prossimo 20 aprile a causa di un’istanza fatta pervenire dalla difesa dell’imputato, Marino Domenico Bindi.
Sempre più vicina, dunque, la fine della vicenda durata quasi vent’anni. Un processo che ha determinato l’apertura di numerosi procedimenti paralleli, una serie di processi nel processo, a carico di presunti favoreggiatori e presunti falsificatori.
Imputato principale dell’omicidio, il molfettese professore di educazione fisica, che con la Bufi aveva intrattenuto, sin da quando la ragazza era 16enne, una relazione extraconiugale che secondo l’accusa sarebbe poi sfociata nel barbaro assassinio.
La ragazza venne rinvenuta cadavere alle ore 1.30 del 3 febbraio di diciannove anni fa sulla statale 16 bis a pochi metri dallo svincolo che porta alla zona industriale di Molfetta, con il cranio fracassato da sei colpi di un corpo contundente e numerose lesioni su tutto il corpo, compresa la frattura delle mani. Secondo il medico legale, prof. Cosimo di Nunno dell’Università di Bari, la ragazza prima di soccombere aveva tentato disperatamente di difendersi dalla brutale aggressione del suo assassino. Le indagini accertarono che Annamaria era stata uccisa altrove per poi essere scaricata sul ciglio della strada.
La svolta giunse nel 2001, quando Bindi venne arrestato. Era il mese di ottobre. L’ordinanza di custodia cautelare in carcere resse al vaglio del tribunale della libertà e della corte di cassazione, che confermarono la gravità del quadro indiziario a carico del presunto assassino. A causa delle sue precarie condizioni di salute, il sospettato fu ricoverato in ospedale (ancora in stato di custodia cautelare) e successivamente ricondotto in carcere, per poi essere liberato allo scadere del termine delle indagini.
Si è giunti al giudizio della suprema corte dopo l’assoluzione di Bindi nei processi di primo e secondo grado.
Contro le sentenze si sono appellati la procura generale presso la corte di appello di Bari (ricorso a firma del procuratore generale Angela Tomasicchio) e la famiglia della vittima. Non condividono la valutazione delle prove e l’interpretazione dei fatti. Tra questi, la tempistica del delitto (compatibile con gli spostamenti di Bindi la sera dell’omicidio), l’alibi del presunto assassino e soprattutto il movente del crimine: per l’accusa da ricercarsi nella lunga relazione tra la 23enne e Bindi, sposato e con una figlia, e nei rischi che potesse divenire di dominio pubblico.
Intanto, sempre nelle aule della cassazione, si è concluso il 19 gennaio con l’assoluzione il processo a carico di Vito Lovino, Luigi Policastro, Antonio Rosato e Pietro Rasola Pescarini, quattro carabinieri di Molfetta accusati di favoreggiamento e falso.
Secondo l’accusa, avrebbero favorito il maggiore indiziato omettendo di avere ritrovato nell’abitazione dell’uomo, all’indomani del delitto, un paio di calzature sospette, poi scomparse. A conforto della teoria, le deposizioni di altri tre colleghi dell’Arma, tra cui l’autore del rinvenimento. Ma, soprattutto le dichiarazioni rese dalla moglie del principale sospettato (la quale affermò che i carabinieri durante la perquisizione portarono via da casa Bindi un paio di scarpe) e dello stesso Bindi, che confermò la circostanza nel corso dell’interrogatorio del giudice per le indagini preliminari in carcere all’indomani dell’arresto.
I militari, tre dei quali ora in pensione e uno in altra sede, erano stati assolti anche in primo e in secondo grado: i fatti ipotizzati a loro carico erano stati ritenuti totalmente insussistenti.