di La Redazione – www.molfettalive.it
4 febbraio 1992. Nel corso della perquisizione effettuata in casa Bindi sono rinvenute delle scarpe appartenenti all’indiziato del delitto Lo riferiscono almeno tre carabinieri e sua moglie. Le calzature presentano, a detta del militare autore del ritovamento, tracce di terriccio, proprio come sulle calzature diAnnamaria Bufi.
Le scarpe, si è detto anche nella scorsa puntata, spariscono poi nel nulla.
Anche due delle quattro bobine delle intercettazioni telefoniche effettuate sull’utenza domestica di Bindi si volatilizzano nel nulla. E quelle rinvenute sono – così dimostra la consulenza tecnica – manomesse.
Già. Ma da chi e perché?
Chi cancella porzioni dei nastri, però, omette di agire anche su quelle parti delle telefonate in cui si parla dei rapporti di amicizia fra Alessandro Messina. il magistrato che conduce le indagini, e il principale sospettato. Già. Ma perché? Perché chi manomette quei nastri, non elimina proprio la telefonata in cui si parla di tale amicizia? E perchè non elimina anche la registrazione in cui si parla dell’esistenza di una ragazza identificata in Eleonora, la conoscente di Annamaria che dieci anni dopo dichiarerà di aver visto la vittima intorno alle 20,30 della sera del delitto in Corso Umberto?
Le indagini del 1992 finiscono sul tavolo del sostituto procuratore della Repubblica di Potenza. Non c’è da valutare solo le presunte responsabilità dei carabinieri, ma anche quelle del magistrato che nel 1992 aveva condotto le indagini. E non si può giudicare un magistrato nel tribunale in cui lavora.
E così il pubblico ministero Henry John Woodcock mette sotto controllo il centralino dei carabinieri di Molfetta. Si indaga per favoreggiamento in omicidio e falso per occultamento di prove. Le telefonate intercettate inducono la magistratura potentina a iscrivere sul registro degli indagati anche due alti ufficiali dell’Arma, un generale (in seguito morto per una caduta da cavallo) e un colonnello, per i reati di favoreggiamento e rivelazione del segreto di ufficio.
Il sostituto procuratore ipotizza anche il coinvolgimento di un magistrato potentino e così il fascicolo viene trasmesso per competenza alla procura di Catanzaro, al sostituto procuratore Luigi De Magistris. Valutate le accuse, i documenti tornano a Potenza. Woodcock è stato sostituito e ora un altro pm regge l’accusa. La linea cambia: la procura chiede l’assoluzione per i carabinieri indagati e il tribunale li assolve. La sentenza diventa definitiva: sono per sempre dichiarati innocenti. Non hanno commesso alcun reato.
Ma l’indagine sull’insegnante di educazione fisica prosegue.
Per escludere l’esistenza di piste alternative, i familiari della vittima propongono nel 2000 supplementi d’indagine nei confronti di altri soggetti. È il caso del guidatore della Golf beige. Il 4 febbraio 1992 era stata perquisita un’auto di quel colore appartenente a un amico di Annamaria. All’interno erano stati ritrovati un bastone e anche un capello. Entrambi mai sottoposti a esami. Si decide di riesumare il cadavere. Una scelta dolorosa. Ma necessaria per confrontare il dna della vittima con quello del capello. L’esito è negativo.
Si riaprono le indagini anche su un tossicodipendente. Un altro tossico rivela agli inquirenti di aver raccolto le sue confidenze: sarebbe lui il killer. Accertamenti approfonditi, esito negativo, pista falsa. Si analizza anche un orecchino trovato nell’auto di un conoscente della vittima, che sembrerebbe essere stato da questa indossato. Nulla. Pista falsa. Anche questa.
E si giunge così al 2001. Un istruttore di palestra, un ex socio di Bindi, rivela al legale della famiglia di avere cose molto importanti da dire agli inquirenti sull’omicidio. Si chiama Nicola Volpe. Si trova per altri motivi in un’aula del Tribunale di Trani, quando apprende che era in corso, contemporaneamente, la riesumazione del cadavere della ragazza. Pensa ai genitori: stanno per essere distrutti dall’ennesimo dolore, quello di sapere che la loro figliola non trova pace neppure sotto terra. E allora si pone a disposizione della giustizia ed è messo sotto torchio per ore. Ecco la rivelazione: Bindi, con il quale egli aveva avuto un rapporto di amicizia e di collaborazione professionale (per la gestione della palestra) gli avrebbe confidato, in preda ad una crisi e in un momento di sconforto, che stava soffrendo molto per un enorme peso che portava da anni sulla coscienza. «L’ho uccisa io», gli avrebbe detto.
Volpe conferma la versione in tutte le sedi. Si apre l’inchiesta per la terza volta. E il testimone dichiara anche altro. Un giorno il sospettato, incontrandolo presso l’Ospedale di Terlizzi, gli avrebbe intimato: «Stai zitto, oppure ti faccio fare la stessa fine».
Le indagini s’intensificano. Sono riascoltati i quattro testimoni che avevano sostenuto l’alibi dell’insegnante. Tre dichiarano di averlo visto alle 21.45 della sera del delitto. Non prima, non alle 20,30 e neppure alle 21. E, come si è detto, il tempo per raggiungere la palestra, all’ingresso di Bisceglie, è di appena 8 minuti. La ragazza è stata uccisa fra le 21 e le 22. Secondo il medico legale, quando è stata scaricata sulla 16bis la rigidità cadaverica era appena iniziata. Chi ha martoriato Annamaria l’ha poi scaricata subito sulla statale.
Un quarto testimone racconta di avere mentito per lunghi dieci anni. Lui, Giuseppe Di Pierro, in palestra la sera del delitto non c’è mai stato e non può aver visto Bindi, come invece aveva dichiarato in precedenza. «Anzi – racconta – io dissi così perché era stato lo stesso Bindi a suggerirmi di dire agli inquirenti, se fossi stato ascoltato, che la sera del delitto lui era in palestra e stava facendo lezione, ma non è vero».
Marino Domenico Bindi nell’ottobre 2001 è arrestato con l’accusa di omicidio volontario di Annamaria Bufi. Il Tribunale della Libertà conferma la gravità del quadro indiziario e la Corte di Cassazione respinge il ricorso di scarcerazione. Ma è passato molto tempo dall’epoca dei fatti e così la custodia cautelare è limitata a due mesi.
Le indagini proseguono serrate e vengono fuori altre due circostanze. La prima. Un amico del sospettato, parlando con un conoscente, Michele Nanna, gli racconta un episodio avvenuto tempo prima, una sera. Bindi, in preda allo sconforto e all’alcool, aveva deciso di dirigersi a piedi a Bisceglie. Una volta raggiunto dal suo amico, gli avrebbe detto: «Cosa ho fatto, cosa ho fatto, ho ucciso Annamaria».
Quella frase «Cosa ho fatto, cosa ho fatto, ho ucciso Annamaria» viene incisa su di un nastro. Chi l’ha registrata è sentito al processo e lo conferma. Poi il nastro è sottoposto a perizia e la frase, come d’incanto, scompare. Non è più impressa su quel nastro. O meglio, c’è ancora, ma non viene trascritta. Si apre un altro processo nel processo. Il tecnico sarà condannato a un anno di carcere per falsa perizia. Perché ha omesso di trascrivere proprio quella frase?
La seconda novità. Un’amica di comitiva dell’arrestato apprende della sua dipendenza dall’alcool. Lo apprende dalla cognata di Bindi. Il motivo sarebbe da ricercare nella morte della ragazza. Questo si raccontava in famiglia.
Il processo è in corso, quando la vicenda si arricchisce di un altro colpo di scena: si procede all’arresto di tre donne. La prima – secondo l’accusa, confermata dal giudice per le indagini preliminari – avrebbe omesso di riferire agli inquirenti che sarebbe stata chiamata a soccorso dopo il delitto e si sarebbe trovata dinanzi al cadavere di Annamaria riverso per terra. La seconda e la terza donna, per la procura, avrebbero omesso di riferire che la ragazza sarebbe stata uccisa con una mazza da baseball poi sparita.
Per una delle tre il Tribunale della Libertà conferma la gravità degli indizi e la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso per la scarcerazione. Sulle altre due piomba nuovamente quell’alone di mistero che ha contraddistinto il barbaro assassinio fin dalle prime ore. Quando gli atti vengono trasmessi al Tribunale della Libertà, si accerta l'assenza di un’intercettazione telefonica. La misura cautelare perde efficacia e le donne sono scarcerate per un vizio di forma.
Il titolare delle indagini, Francesco Bretone, fa pervenire una nota al procuratore capo. Spiega che il fascicolo è partito da Trani in ordine e per dimostrarlo esibisce un indice degli atti: quando l’incartamento arriva a Bari tutto è al proprio posto, compresa quell’intercettazione. Un nuovo procedimento per furto di atti giudiziari, contro ignoti, è aperto dalla procura di Bari. Uno della lunga serie di indagini parallele. A oggi nessuna notizia.
Bretone comunque non molla. Formula nei confronti delle tre imputate l’accusa per i reati di favoreggiamento del presunto assassino e non si è giunti ancora alla sentenza di primo grado.
Si arriva al processo per il professore di educazione fisica. La Corte di Assise di Trani lo assolve. Non è lui l’assassino di Annamaria. È innocente. Le prove non sono sufficienti. La Procura della Repubblica di Trani e i familiari della vittima propongono appello. E anche la Corte di Assise di Appello di Bari giudica Bindi innocente.
La Procura Generale di Bari e la famiglia Bufi ricorrono per cassazione. Il padre della ragazza grida allo scandalo per la lunghezza della camera di consiglio. La Corte di Bari ha deciso il processo in meno di tre quarti d’ora. Allora fa disporre un’ispezione. Si scopre che i diciannove faldoni del processo per l’omicidio della ragazza non sono mai stati presi in visione dalla Corte che ha giudicato innocente Bindi. Si è praticamente celebrato un processo senza atti.
Il 20 aprile 2011, a Roma, dinanzi alla Corte Suprema di Cassazione si discute l’innocenza dell’accusato e si rimettono in gioco tutte le anomalie: «Signori della Corte, mi auguro e vi auguro – così esordisce il procuratore generale presso la suprema corte – di non trovarvi mai più di fronte ad un processo del genere; è da indignazione».
Le sentenze assolutorie del presunto assassino vengono annullate dalla Cassazione, per motivi specifici: tutto errato il ragionamento e la valutazione delle prove da parte dei giudici di primo e secondo grado. La Cassazione ordina che si rifaccia il processo di secondo grado: il primo e il secondo giudice – secondo quanto si legge nella sentenza della Corte di Cassazione – hanno valutato gli indizi a campione e non complessivamente. Non hanno valutato tanti elementi a carico dell’imputato che, laddove correttamente interpretati, avrebbero condotto il processo a ben altra conclusione.
Ed ecco che oggi, primo dicembre duemilaundici, si torna in aula.