Nel regno del boss, il terrore delle parole

fonte: https://bari.repubblica.it – di Chiara Spagnolo

Tre adolescenti all’angolo di una strada del centro di Bitonto parlano fisso, uno allunga un pacchetto, l’altro restituisce soldi, il terzo sta a guardare, da lontano non si capisce se sta con lo spacciatore o con l’acquirente. Sono giovanissimi, forse non hanno neppure quindici anni sono i figli della città in cui all’alba del 20 aprile è scomparso il boss Domenico Conte. E nella quale, con tutta probabilità, si nasconde. Polizia e carabinieri stanno setacciando ogni angolo ma del 48enne su cui pende un mandato d’arresto per l’omicidio dell’anziana Anna Rosa Tarantino, avvenuto il 30 dicembre, non c’e traccia. Nulla nella sua abitazione di viale Isonzo, dove gli investigatori su ordine della Dda hanno cercato cunicoli, botole, doppifondi in armadi e muri. Nulla nelle case dei parenti, degli uomini più fidati, nei negozi dei commercianti che non possono dirgli no. Buio sulla sua scomparsa. Silenzio assoluto sulla sua latitanza.

La collaborazione messa in campo da alcuni cittadini dopo l’assassinio della Tarantino, è un ricordo. Tanti bitontini si augurano che Conte venga arrestato, per primo il sindaco Michele Abbaticchio, che alla notizia dell’ordine di arresto per il boss ha scritto su facebook: “Ho voglia di respirare, tutti vogliamo respirare meglio». E giù commenti dei concittadini: “Se vogliamo respirare è necessario catturarlo», “Lo catturano solo se vogliono, e come se sapesse che stavano andando a prenderlo». Aiuti concreti alle forze dell’ordine, però, ancora non ne sono arrivati e, anzi, per certi versi il clima di omertà si è fatto più opprimente. Perché il capoclan ha occhi e orecchie ovunque. Decine di videocamere in tante strade della città, alcune collegate alla sua abitazione altre gestite da insospettabili. E poi le vedette, che presidiano le strade per avvisare chi di dovere dell’arrivo delle forze dell’ordine. Il centro storico è un susseguirsi di vicoli di pietra candida, le case abbandonate non si contano, in alcune i proprietari emigranti non mettono piede da decenni. Scardinare quei portoni di legno è cosa da niente per chi è abituato ad andare in giro con la pistola, occultare droga e armi un gioco.

Da gennaio polizia, carabinieri e finanza hanno trovato armi e arrestato pusher ma la battaglia per certi versi sembra impari, perché è impossibile presidiare tutto. Lo sanno i familiari di Giuseppe Casadibari, ferito nell’agguato in cui morì la Tarantino, ai quali fu devastata la casa dopo la decisione del giovane di collaborare. E quelli di Vito Antonio Tarullo e Rocco Papaleo, ex fedelissimi di Conte oggi pentiti. Lo sa Fabrizio Colella, amministratore giudiziario dei beni dell’imprenditore Francesco Mena, che cerca di mantenere attiva la sala giochi sequestrata ma deve fare i conti con continui furti di denaro e danneggiamenti delle slot machine. Lo ricordano i vertici della Fondazione antiusura di Bari, che hanno dovuto dirottare sullo sportello del capoluogo gli utenti bitontini, perche venivano intimiditi dagli usurai. E anche Michele Pulzis e Patrizia Moretti, che hanno fondato la cooperativa Eughenia e cercano di restituire una vita normale ai minori a rischio. Le due strutture che gestiscono, “Baloo” e “Chiccolino”, hanno subito furti e danneggiamenti, i loro pulmini sono stati rubati e le auto vandalizzate. In qualche occasione uomini dei clan hanno sfidato direttamente gli operatori, dicendo loro che qualche ragazzo era meglio lasciarlo perdere, «perché questo serve a noi“. Ma “Eughenia” non si è fermata, proseguendo le attività con Baloo, centro socio-educativo diurno finanziato dal Comune che ospita trenta ragazzi, e Chiccolino struttura semi-residenziale per minor! del circuito penale (la prima in Italia del genre) tenuta in vita grazie ai fondi Pon. In entrambi si concretizza ogni giorno quello che Pulzis definisce «un braccio di ferro, tra noi, che cerchiamo di condividere valori e regole dello Stato, e la criminalità che impone le sue leggi. Una mafia opprimente soprattutto per i giovani, assoldati come pusher. “A dodici anni gli danno bustine da spacciare e pistole per sparare se si sentono in difficoltà — aveva raccontato il sindaco qualche settimana fa —. I Servizi sociali cercano di fare la loro parte ma se mancano le famiglie è difficile fargli capire che le loro vite non sono segnate“. Ovvero che un destino diverso è possibile. Difficile ma non impossibile, testimonia Bulzis: Abbiamo sentito padri, che facevano parte di gruppi criminali, chiederci aiuto per tirare i loro figli fuori da quelle vite. Anche le madri si stanno esponendo di più. Bitonto è cambiata rispetto a una ventina di anni fa ma dobbiamo continuare a lavorare e a non avere  paura.

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