È tornato in carcere il 36enne Domenico Masciopinto, accusato di detenzione di armi da guerra e ricettazione, con l’aggravante mafiosa, commessi subito dopo essere stato scarcerato per aver scontato 13 anni per l’omicidio di Gaetano Marchitelli, il 16enne vittima innocente di mafia, ucciso per errore nell’ottobre 2003.
Masciopinto è stato arrestato dai carabinieri insieme con il coindagato Antonio De Finis, 29 anni, al quale sono stati concessi i domiciliari. Le indagini, coordinate dalla Dda di Bari, hanno accertato che Masciopinto deteneva l’arma, un fucile d’assalto AK 47 Kalashinkov, usata dal clan Di Cosola, al quale sarebbero affiliati entrambi gli indagati, nel corso del contrasto armato con il clan rivale degli Strisciuglio nel quartiere San Pio di Bari. L’arma sarebbe stata consegnata a Masciopinto nel 2018, subito dopo la scarcerazione per il delitto Marchitelli.
Domenico Masciopinto, pregiudicato 33enne del clan mafioso Di Cosola di Bari, aveva vissuto il periodo di carcerazione per l’omicidio di Gaetano Marchitelli, il 15enne ucciso per errore a Bari-Carbonara nell’ottobre 2003, “come un tradimento degli altri sodali del clan sulla sua pelle” e per questo, dopo la scarcerazione nel dicembre 2017, il clan gli aveva regalato un kalashnikov “per fare la pace”.
La detenzione di quest’arma da guerra gli è costata un nuovo arresto. E’ uno dei particolari che emergono dall’ordinanza di custodia cautelare notificata a Masciopinto (in carcere) e ad Antonio De Finis (agli arresti domiciliari).”La cessione del Kalashnikov da parte di Vincenzo di Cosola (co-indagato e attualmente collaboratore di giustizia, ndr) in favore di Masciopinto – spiega il gip Giuseppe De Benedictis – avvenne per sopire il risentimento di quest’ultimo verso Di Cosola per le sue dichiarazioni rese a seguito dell’omicidio Marchitelli“.
Negli atti si legge che dopo aver scontato 13 anni in cella per il delitto Marchitelli, Masciopinto avrebbe “dimostrato di voler conquistare uno spazio all’interno del clan anche grazie al credito maturato nei confronti degli affiliati, rappresentato dalla lunga carcerazione scontata senza aver mai ottenuto alcun beneficio e senza aver mai fatto rivelazioni di alcun tipo agli inquirenti. Ma anche perché invelenito dal fatto di non aver mai percepito dal suo clan di appartenenza un solo centesimo durante la sua lunga permanenza in carcere, fatto questo che generava una fortissima volontà di rivalsa e di vendetta e di un vero e proprio odio nei confronti soprattutto del suo accusatore, Vincenzo Di Cosola“.