La vocazione social delle famiglie di mafia

Anche la malavita ha scoperto i vantaggi dei social network. I boss, i picciotti, i giovani d’onore della camorra barese hanno iniziato a prendere ordini, vendere droga, regolare i rapporti interni alle «famiglie», imporre ricatti, mandare messaggi cifrati, esibire muscoli, giurare vendetta attraverso Facebook, Instagram, Twitter, Telegram, WhatsApp. Sono lì, confusi tra centinaiia di migliaia di utenti, consapevoli del fatto che muovendosi sulle piattaforme con sufficiente padronanza, cavalcando il digitale con disinvoltura, sfruttando programmi e applicazioni possono dialogare velocemente, sfuggendo, se sono fortunati all’occhio del grande fratello delle Procure degli uffici di polizia giudiziaria. Fino al paradosso che anche dal carcere, utilizzando telefoni cellulari, fatti entrare clandestinamente, i boss possono mandare ordini alla cosca via sms.

CRIMINALITÀ 2.0 – La comunicazione ha regole e tempi calibrati. Ci sono parole e locuzioni pescate da un vocabolario di modi di dire e tormentoni «Amore mio…», «U’frat...» , «Stà senza pensier», «Biv! Vogl capì se me pozz fidà e te». Poi la sintassi non proprio curata con un generoso ricorso ad emoticon ed emoji. A volte sembra una dimensione perfetta per chi possiede un vocabolario limitato, fa ricorso a un linguaggio cifrato e affida spesso alla suggestioni di una immagine ordini o minacce. La comunità mafiosa virtuale accoglie capi carismatici e chiacchielli che si muovono on line con la necessaria padronanza del mezzo dietro profili apparentemente al di sopra di ogni sospetto. La comunicazione attraverso Facebook o Instagram, ad esempio, non è solo ad appannaggio delle new generation e dei nativi digitali, ma è uno strumento al quale possono avere accesso anche i camorristi di lunga militanza, quelli che all’inizio delle loro carriere non utilizzavano sms o messaggi WhatsApp ma i pizzini.

La comunità criminale 2.0 usa il web per arrivare alle proprie vittime e ai propri nemici ma anche per fare propaganda. La camorra ha costante necessità di acquisire consenso e lo fa utilizzando i sistemi che più immediatamente arrivano alle gente, e in particolare ai più giovani. Anche i ricercati, i latitanti spesso si gettano in Rete per tenere vivo il rapporto con familiari e sodali. Usano profili riservati “agli amici“, ma non rinunciano a muoversi freneticamente su Internet. Le nuove tecnologie stanno cambiando ad esempio il business della droga. I banchetti dello spaccio si sono trasferiti sulle bacheche di Facebook, con un linguaggio rigidamente criptico.

LE INFILTRAZIONI «VIRTUALI» – Gli investigatori si sono resi conto delle infiltrazioni mafiose sui social e li utilizzano come strumento investigativo. Facebook, Instagram, Twitter aiutano a ricostruire rapporti, colleganze tra gli utenti in odore di mafia per capire meglio come si muovono i clan. Le immagini ed i messaggi postati vengono spesso utilizzati come punto di partenza nelle indagini. Nella inchiesta della Dda e della Squadra Mobile di Bari che tre giorni fa ha portato in carcere 21 affiliati alla criminalità organizzata di Japigia (altri tre mancano ancora all’appelo) Facebook e Instagram sono diventati fonti utili di informazioni. E’ su Instagram, ad esempio, che gli investigatori della sezione Omicidio della Squadra Mobile, hanno intercettato il post della sorella di Giuseppe Signorile, 32 anni, detto «u’Gommist» (stretto collaboratore del ras emergente Antonio Busco, 37 anni, detto Tonio) indagato per aver preso parto all’omicidio del rivale Giuseppe Gelao, 39 anni, affiliato al gruppo Palermiti.

La donna ha pubblicato su questo social dedicato soprattutto alle immagini, una sua foto in cui è ritratta mentre impugna una pistola. Sotto la didascalia « E fu così che uccise tutti». Secondo i detective il riferimento potrebbe essere al gruppo del quale fanno parte il fratello e Busco. Una foto che sa di avvertimento. Così almeno l’avrebbe interpretata – secondo la versione della Polizia – Maddalena Cassano, moglie del boss Domenico Milella, 39 anni, alias «Mimm u’ Gnor», braccio destro del mammasantissima Eugenio Palermiti, detto «il nonno», rivale di Busco e luogotenente del padrino Savinuccio Parisi.

LE FOTO DELLE FESTE – Gli investigatori hanno stabilito che la signora Cassano in Milella, amica su Facebook della sorella di Davide Monti, al secolo Daviduccio, 20 anni, figlio del Domenico Monti, 60 anni, conosciuto come «Mimmo u’biund» già luogotenente del padrino di Bari Vecchia, Antonio Capriati, sfruttava questa amicizia per entrare nel profilo della sorellastra di Daviduccio con lo scopo di assumere informazioni sulle persone che i Monti frequentavano durante le feste e osservare le loro foto.

Nella stessa inchiesta i detective della Omicidi hanno intercettato ancora donna Maddalena Cassano che parlando con il marito, fuori di sé dalla rabbia, commenta un messaggio postato su Instagram su un profilo riferibile sempre a Signorile e alla moglie dal contenuto per lei provocatorio «Fino alla morte, più forti di prima». Ed effettivamente «fino alla morte» violenta di ben tre persone ossia Francesco Barbieri, 40 anni, detto «U’varvir», pusher e cliente dei Palermiti passato poi con Busco, Giuseppe Gelao e infine Nicola De Santis, 29 anni, detto «Nicola il palestrato», si è spinta la faida tra gli affiliati alle famiglie Palermiti e Parisi da una parte e il gruppo di Busco dall’altra.

LE COMODITÀLe mafie scelgono i social anche per rendersi meno rintracciabili, per esporsi giusto il necessario ai pericoli della strada. Per gli spacciatori ad esempio, il lavoro è più tranquillo e meno dannoso per la salute. Stanno in giro sempre meno: prendono appuntamento on line e consegnano la droga a domicilio, come la pizza.

Se il virtuale è un’estensione della vita reale anche l’esperienza criminale è parte integrante dell’ecosistema digitale. Il bullo, il delinquente, il mafioso cercano nei social un orizzonte culturale, una concezione del mondo, della vita, e della posizione occupata dall’uomo da condividere at- traverso i contenuti multimediali. Chi impiega Google, Facebook, Youtube o qualsiasi altro stru- mento della Rete mette a frutto le proprie capacità di intuito e di emulazione, ovvero abilità e talenti che non discendono dal grado di scolarizzazione individuale. Anche chi non ha raggiunto una sufficiente alfabetizzazione analogica può trovarsi a suo agio nell’esperienza.

COMUNICAZIONE VELOCE – WhatsApp e altre applicazioni simili sono diventate dei «pizzini». I social network e le app di messaggistica istantanea sono diventati importanti strumenti per la comunicazione esterna ed interna ai clan, nonché per il controllo di territorio. WhatsApp e altre applicazioni simili sono diventate dei «pizzini 2.0», utilizzati soprattutto per eludere le intercettazioni telefoniche. Attraverso i social la criminalità ordisce le sue trame e prepara le sue trappole. Lo avrebbe fatto, secondo la versione degli inquirenti la cosiddetta «dama nera» , l’imprenditrice di Cassano delle Murge, Vincenza Mariani, ritenuta la mandante dell’omicidio del suo amante, il netturbino Michele Amedeo, assassinato la sera del 25 aprile del 2017 nel parcheggio dell’Amiu. La Mariani aveva iniziato col perseguitare e minacciare Amedeo ma soprattutto sua figlia, della quale aveva carpito la fiducia con un profilo fake di Facebook, fingendo persino una gravidanza con false ecografie per costringere l’uomo a non lasciarla.

I SELFIE NEI LABORATORI DELLA DROGA – A proposito di spacciatori che lavorano sui social network, nel maggio di quest’anno i carabinieri hanno smantellato tra Bari e Modugno una organizzazione di venditori al dettaglio di droga che si davano appuntamento con i clienti su Face- book. I pusher per incitarsi a vicenda si scambiavano, via WhatsApp, selfie provocatori, scattati nei laboratori per la preparazione delle dosi, con tanto di droga, bilancini e bustine in bella mostra. Nella filiera distributiva erano inseriti anche ragazzi tra i 15 ed 17 anni. Insieme ai selfie e alle conversazioni via Facebook dall’inchiesta so- no emersi messaggi «social» nei quali gli affiliati all’organizzazione parlavano di ordinazioni di focaccia, pizza, profumo, scottex, pantaloni, ombrelli, panini, sigarette, birra, caffè, quadro rotto. Un «linguaggio criptico» che secondo gli inquirenti della Dda di Bari stava ad indicare il tipo e la quantità di sostanza stupefacente.

GIOVANISSIMI – Erano quasi tutti nativi digitali anche i pusher della paranza di Parchitello a Noicattaro, della città vecchia di Triggiano, di Largo Adua a Bari, che utilizzavano il linguaggio di «Gomorra» e amavano imitare la rappresentazione dei personaggi della «fiction». Tra loro c’era «O’Nan», «O’Mulat», «O’ Principe», «O’ Stregone» ma soprattutto «Genny», come Genny Sa- vastano e Pittbull la sua spallaccia.

Nel «giro», erano chiamati proprio «quelli di Gomorra». In 17 sono finiti in carcere a dicembre dello scorso anno. L’inchiesta è stata battezzata “Holy drug” (“Droga sacra”). Tra loro Giorgio Larizzi, 28 anni, che i suoi chiamavano «Satana», Alessandro Bellomo, 36 anni, e Sabino Milloni, 24 anni. Stando alla ricostruzione degli uomini del Gruppo pronto impiego della Guardia di finanza, questi erano i «pezzi da novanta». Riuscivano a tenere le fila del loro giro di spaccio soprattutto attraverso i «social media» più utilizzati Facebook, Twitter, Messenger, Whatsapp, Instagram. Poi c’è chi è rimasto incastrato da un selfie come il giovane rampollo di una famiglia di camorra, nipote di uno dei pezzi da novanta del clan Parisi -Palermiti che insieme ad altre sei canaglie a par suo, tutti tra i 13 ed i 16 anni, sono stati denunciati per aver pestato a sangue due coetanei, compagni di scuola e di vita di quartiere, di 16 e 15 anni. Gli investigatori sono riusciti a risalire alla identità dei componenti del «branco» comparando i filmati estrapolati dai sistemi di video-sorveglianza installati sulla strada dove è avvenuto il pestaggio e in alcuni esercizi pubblici con le fotografie, i selfie, le dirette live, le stories, le track recorde, gli history book pubblicati sui profili social dei giovanissimi aggressori.

INDAGINI SU FB – Uno dei casi che ha fatto scuola, in tema di criminalità sociale media è quella di un giovane arrestato nel 2015 dopo un conflitto a fuoco ingaggiato con la Polizia mentre usciva dal supermercato «Eurospin» di via Accolti Gil con i soldi della cassa. Gli investigatori confrontarono le immagini di quella rapina con le registrazioni di altri due assalti ai danni di supermarket del San Paolo e giunsero alla conclusione che la persona ritratta era la stessa. Esplorando il profilo del giovanotto su Facebook vi trovarono un fotomontaggio nel quale ironicamente annunciava di cercare complici rapinatori (foto che lo ritraeva con in braccio il fratellino di pochi mesi e con una pistola in pugno). Indossava inoltre gli stessi abiti del rapinatore immortalato all’interno di uno dei market presi di mira. Si sa, nei social network la condivisione è tutto.

fonte: Luca Natile – edicola.lagazzettadelmezzogiorno.it

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