La narrazione di Paola

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I’m not bad, I’m just drawn that way

di Antonello Mastantuoni – www.imaginot.it

Da più o meno vent’anni esiste una ricetta per confezionare campagne elettorali che si è rivelata estremamente efficace: si proietta la storia personale del candidato sullo sfondo di una storia collettiva e la biografia diventa così, grazie a un gioco prospettico, una storia esemplare e il candidato la persona giusta al momento giusto: colui (o colei) grazie al quale la Storia arriverà finalmente a compimento. Gli elettori, da parte loro, si sentiranno partecipi di uno straordinario processo collettivo: «qui e adesso si sta scrivendo la Storia; anche io ci sono e potrò raccontarlo ai miei nipoti». Una gran bella kermesse, insomma: come un concerto rock, ma più in grande. (A ben vedere non si tratta di nulla di particolarmente nuovo se non nel fatto che dispositivi di controllo sociale, già tristemente conosciuti per la loro efficacia, trovano oggi applicazione all’interno di contesti che si suole ancora definire democratici).
Le vicende nelle quali la storia di Paola Natalicchio è stata inserita sono quelle della Sinistra molfettese, descritta come “la parte migliore della città”, tenuta sotto un giogo di ignominia dai dirty tricks di Tonino Azzollini, il mago cattivo capace di lanciare un maleficio su Molfetta e mantenerla in un sonno fatto di incubi di illegalità e corruzione. Richiamata dall’esilio, da dove ha sempre seguito con tristezza e crescente sgomento ciò che andava accadendo, Paola torna per risvegliare la sua città dal sortilegio e, aiutata dai pochi cavalieri che in questi anni hanno saputo resistere al Gran Bombasso, restituirle l’anima. Torna, Paola, indossando le vesti della guida capace di condurre il popolo fuori dal deserto in nome degli antichi profeti Guglielmo e Tommaso Minervini. (Quest’ultimo ha avuto all’interno del quadro narrativo un ruolo che, se può apparire di minor rilievo rispetto a quello di Guglielmo, è sicuramente più complesso ma paradossalmente più efficace dal punto di vista della garanzia della bontà di Paola. Tommaso infatti ha conosciuto il Male, ne è stato alleato, ma adesso è tornato redento e mondato. L’abiura e il tradimento, il pentimento e infine il riscatto definitivo si sublimano nel ruolo nuovo di padre nobile certificato definitivamente dalla generosità con cui si tira da parte a dare, senza nulla chiedere in cambio, spazio alla nuova guida).
Rassegniamoci al fatto che nella stagione politica che stiamo vivendo, in cui il processo di cessione di sovranità da parte dello Stato verso il potere finanziario trova immediata traduzione nei tagli ai trasferimenti economici verso gli enti locali, gli spazi di operabilità di cui dispone un sindaco sono ridotti ad assai poca cosa e, per di più, appaiono in via di ulteriore contrazione.
Se, dunque, amministrare la cosa pubblica è sempre più simile a una curatela fallimentare, che altro mai potrà fare un sindaco se non affidarsi a una buona narrazione per tener buoni gli elettori, per far loro credere che ci sia ancora una possibilità di redenzione e un futuro?
Ma un quadro narrativo, per quanto possa essere stato ben predisposto, richiederà sempre continue operazioni di manutenzione sia durante la campagna elettorale che dopo, ammesso che sia ancora utile fare differenza fra i due momenti: viviamo ormai in un tempo fatto di campagne elettorali permanenti, illimitate, strabordanti che fagocitano ogni forma narrativa senza confini di genere. Chi cura l’immagine del candidato o del politico viene chiamato a riscrivere continuamente la narrazione originale per adattarla alle nuove condizioni, a cercare di porre rimedi agli attacchi e ai danni che le narrazioni dei concorrenti arrecano; bisognerà che rinforzi le difese e organizzi nuove sortite; dovrà, al verificarsi di un fatto nuovo o al diffondersi di una notizia sgradita, riadattare l’inquadratura perché ciò che può essere utile al politico resti in bella vista e venga nascosto invece ciò che non lo è.
Che la narrazione di Paola non fosse di facile manutenzione è apparso subito evidente, fondata com’è sulla sabbia di mezze verità e di troppe omissioni. D’altra parte non si poteva certo raccontare ai molfettesi che buona parte della responsabilità della situazione in cui si trova la città ricade proprio sulle teste di coloro a cui veniva attribuito il ruolo di numi tutelari del centro sinistra cittadino. Né si poteva dire che se il senatore ha potuto ergersi a dominus incontrastato della città per oltre un decennio lo si deve alle guerre intestine del centro sinistra scatenate dall’incapacità di Guglielmo Minervini di tollerare chiunque possa mettere in discussione le sue ambizioni carismatiche.
Quello che soprattutto non si poteva raccontare è che all’alternarsi delle compagini politiche al governo della città non ha mai corrisposto una differenza di strategia politica: chiunque si sia trovato a governare non ha saputo fare altro che perseguire lo stesso “sviluppo” fatto di saccheggio sistematico del territorio e di consegna della città ai processi di deterritorializzazione economico-finanziaria. La ragione è semplice: con questa politica l’élite economica cittadina si è arricchita in maniera esponenziale a tutto discapito del resto degli abitanti e della qualità ambientale e sociale della città. La nostra classe dirigente non ha fatto altro che comportarsi come le classi dirigenti dei paesi del terzo mondo nel periodo post-coloniale, quelle che hanno svenduto le ricchezze dei propri paesi e le vite dei propri connazionali agli interessi delle multinazionali ricevendone in cambio ricche prebende. D’altro canto la contiguità familistica fra moltissimi politici di entrambi gli schieramenti e i portatori di quegli interessi è una cosa clamorosamente manifesta, come anche la organicità dell’UTC a questo disegno.

L’efficacia di ogni racconto è subordinata alla sua capacità di renderci felici, di catturarci con le sue trame e con i suoi colpi di scena, al punto da indurci a “sospendere l’incredulità”, a credere anche all’incredibile per tutta la durata del racconto. Per questo è indispensabile che una narrazione politica non cessi mai. Ogni narrazione, adesso dovrebbe essere chiaro, è un incantamento: e anche la narrazione di Paola non fa eccezione. Quanto riuscirà ancora ad essere efficace sarà il tempo a dirlo.
In quanto esseri umani non possiamo fare a meno dei racconti: siamo animali narranti. Le narrazioni ci attraversano e alcune ci prendono, ci danno forma e coscienza. Alcune in noi diventano prevalenti e diventano la nostra bussola. Ciascuno di noi si colloca all’incrocio di alcune narrazioni lì dove spera di trovare – spesso, ahimè, invano – un punto di equilibrio, di minimo dolore almeno, se non di felicità. Ogni narrazione tende per sua natura a diventare egemonica, totalizzante. Ed è una cosa che dobbiamo temere grandemente: è dal conflitto fra narrazioni che nascono le crepe che nella nostra coscienza diventano dubbi, incertezze, ferite, cicatrici, tutte le cose cioè a cui dobbiamo la nostra libertà e umanità.
Forse Paola Natalicchio pensava di essere la narratrice. E invece, come tutti gli esseri umani, più che raccontare anche lei viene soprattutto raccontata. Dai racconti non si può sfuggire fino a quando non si scopre di essere prigionieri: solo allora, diventati consapevoli di sé, si può cercare di evadere.
Paola, esci dal racconto!

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