Il fiato sul collo della magistratura ce lo avevano da tempo e lo vivevano con fastidio. I manager del fotovoltaico, finiti in manette per la megatruffa da 300milioni di euro che si è abbattuta sulla regione più irraggiata d’Europa, avevano cominciato a scalpitare già due anni fa, in seguito ai primi sequestri disposti dalla magistratura di Brindisi e agli arresti scaturiti dall’inchiesta Tecnova.
All’epoca in manette finirono solo i referenti della società spagnola, accusati di avere ridotto in schiavitù cinquecento immigrati per montare velocemente i pannelli e non perdere milioni di euro di i finanziamenti, mentre i vertici del Gsf presero le distanze da procedure irregolari e sfruttamento, sventolando la bandiera di una legalità smentita dall’operazione “Black out”. La Procura di Brindisi, però, le idee ce le aveva molto chiare fin da allora e aveva capito bene che per stanare il marcio sotto il business dei pannelli bisognava andare oltre Tecnova e ricostruire il sistema delle scatole cinesi per arrivare agli investitori iniziali. Dal 2011 è stato un investigare continuo. Mentre il Global solar found trasformava centinaia di ettari di campagne in campi di silicio, prendendo soldi italiani e facendoli sparire all’estero, nel nome di uno sviluppo che veniva sbandierato come indolore dal country manager Carmine Di Giglio (tra gli arrestati), che mostrava con orgoglio il “campo 6 di Nardò”, sollecitando la magistratura “a chiarire il quadro normativo di riferimento, per evitare interpretazioni differenti nelle varie Procure”.
Alle sue sollecitazioni, il procuratore aggiunto di Brindisi, Nicolangelo Ghizzardi, già due anni fa, rispondeva indirettamente, facendo capire che la Procura di Brindisi sapeva bene cosa cercare e che non aveva intenzione di rallentare gli accertamenti sugli investimenti che hanno cambiato il volto del Salento. Mangiandone la terra senza restituire nulla.
di CHIARA SPAGNOLO