
Il capo della Procura della Repubblica traccia un bilancio di fine anno: “Abbiamo fatto passi importanti per il recupero della legalità”. L’emergenza tangenti: “Gli imprenditori non ammettono le richieste dai funzionari pubblici perché hanno paura di non lavorare più” – fonte: Domenico Castellaneta e Chiara Spagnolo – bari.repubblica.it
«Il voto di scambio è diffuso e, soprattutto, trasversale. Siamo stati vigili prima delle elezioni comunali di giugno e lo saremo altrettanto in vista delle prossime regionali»: il procuratore della Repubblica, Roberto Rossi, si prepara ad affrontare un altro anno importante alla guida degli inquirenti nel capoluogo. Sarà l’anno delle elezioni regionali (che potrebbero comunque slittare alla primavera del 2026), con i lunghi mesi di una campagna elettorale che potrebbe portare con sé tentativi di conquistare gli elettori anche con metodi illeciti. Come sarebbe potuto accadere nelle ultime comunali, rispetto alle quali — è stato dimostrato — si stavano muovendo personaggi arrestati nelle tre inchieste esplose nella scorsa primavera.

Procuratore siamo già dentro una nuova campagna elettorale.
«Noi siamo sempre vigili. Perseguiamo potenziali reati connessi alla compravendita di voti commessi da qualunque parte politica, checché qualcuno possa dire. È un problema che attiene alla tenuta della democrazia, perché quello che la rende tale è il voto libero. Purtroppo mentre il voto di scambio politico-mafioso è sanzionato in modo rilevante, il voto di scambio puro è punito in maniera ridicola. Ma è un fenomeno molto diffuso e trasversale, che non è legato a concetti politici. Su questo la Procura di Bari è molto attenta e lo sarà anche nel futuro».
Qual è il bilancio di questo 2024?
«Sono un ottimista, io lo vedo positivo. A Bari, anche grazie al nostro lavoro, sono stati fatti passi importanti nella direzione del recupero della legalità. Quando mi sono insediato uno degli obiettivi che ci eravamo dati era l’eliminazione del legame fra la borghesia cittadina e la criminalità organizzata: l’indagine Codice interno — al di là della polemica politica che l’ha accompagnata — in parte ha fatto questo. Sono stati sgominati dei clan e, con quella e altre indagini, recuperati patrimoni illeciti per decine di milioni di euro. C’è una parte di città che risponde al nostro lavoro, ma anche una che ancora resiste».

Ovvero?
«C’è ancora una parte di borghesia che flirta con i clan, meno rispetto a prima ma comunque c’è. Bari non è una città in cui esiste un controllo totale del territorio da parte dei clan, ma c’è una tradizione culturale di forte sottovalutazione».
Le commistioni fra criminalità e borghesia nascono dalla volontà di fare affari comuni?
«C’è un flusso di denaro guadagnato illecitamente dai clan che deve essere riciclato e che, per forza di cose, passa attraverso le mani di una borghesia professionale. Ci sono state indagini su questo aspetto e ce ne saranno altre, perché è necessario spezzare questo legame».
Inchieste recenti, a cominciare dalla stessa Codice interno, hanno mostrato che il turismo è un settore perfetto per lavare i soldi sporchi.
«Lì dove cresce l’economia, la criminalità investe. A Bari il turismo sta diventando la ricchezza della città, quindi si investe in questo campo, ma ci sono anche altri settori che non vanno sottovalutati».

Per esempio?
«Il gioco legale. Indagini — alcune con condanne passate in giudicato — hanno dimostrato che nel gioco legale vengono impiegate somme di denaro elevatissime, che non sono spiegabili solo con la ludopatia. Già soltanto le cifre vinte, perché quelle giocate non è dato saperle, sono assolutamente incompatibili con le giocate di persone comuni, anche se ludopatiche. Significa che ci sono veri e propri investimenti di denaro da riciclare nel gioco».

La vendita di droga resta il core business dei clan?
«Indubbiamente è la loro prima fonte di guadagno: sempre Codice interno ha mostrato che i gruppi mafiosi avevano guadagni elevatissimi. Pur considerando le spese che affrontano per il mantenimento delle famiglie dei detenuti, per gli avvocati eccetera, resta comunque una parte di entrate elevate che non sappiamo dove vanno a finire».

Investono ancora nell’edilizia come negli anni passati?
«Sicuramente. Anche per quanto riguarda i bonus abbiamo notato che in talune circostanze ci sono stati flussi di denaro incompatibili con attività ordinarie, ma non abbiamo certezze sui rapporti fra l’uso degli incentivi e il riciclaggio».
A Bari circola ancora troppo contante?
«Troppo, nonostante la generale diminuzione dell’uso della moneta a favore delle carte».
In questa situazione generale ci sono abbastanza denunce?
«Solo per alcune cose. Sicuramente sono aumentate quelle per i reati di genere, ma anche quelle per le estorsioni, le segnalazioni da parte dei cittadini sulle piazze di spaccio, ma non abbiamo denunce riguardo la pubblica amministrazione».
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Nessuno segnala potenziali illeciti dei dipendenti pubblici?
«Assolutamente no. Per certi aspetti c’è meno paura a denunciare la criminalità organizzata che la pubblica amministrazione. Le nostre indagini nascono soltanto dall’ascolto di intercettazioni o dall’esame di documenti. E sono indagini difficilissime, perché gli autori di reati in questi ambiti sono attentissimi a non essere scoperti, lasciano i telefonini prima di incontrarsi, non fanno scambi di denaro negli uffici, usano chat difficilmente decriptabili».

Ma se nessuno di quelli che pagano — o a cui viene chiesto di pagare — si scandalizza, significa che è un sistema diffuso, che questa è la normalità.
«Ne sono convinto. Ed è una cosa molto preoccupante. All’indomani di Tangentopoli c’è stata una riduzione di attenzione verso questo fenomeno da parte di tutti. I pochi reati che perseguiamo vengono fuori grazie a sforzi investigativo enormi. Dico pochi perché siamo impegnati su mille fronti. Per trovare una tangente bisogna mettere dieci ambientali, seguire gli indagati, realizzare una rete investigativa. Ma alla fine la collaborazione è poca. Nessun imprenditore ammette che i funzionari pubblici chiedono tangenti, perché hanno paura di non lavorare più. Questo è un fenomeno devastante per l’economia».
Torniamo alla criminalità organizzata: l’inchiesta Codice interno ha quasi azzerato i clan Parisi e Palermiti. C’è stato poi un riposizionamento degli altri gruppi criminali baresi, un tentativo di allargarsi?
«La lotta alla criminalità organizzata è fatta di cicli: quando viene colpito un clan, gli altri cercano di prendersi i suoi spazi: soprattutto per le piazze di spaccio. A Bari c’è oggettivamente un problema di spaccio — ma anche i centri della provincia non scherzano — perché nel settore degli stupefacenti è la domanda che genera l’offerta e oggi in città il consumo è elevatissimo».
È cambiata anche la tipologia degli spacciatori?
«Il consumo di droghe è capillare, quindi inevitabilmente ci sono spacciatori che non sono di famiglie delinquenziali: i ragazzini vengono utilizzati di più per vendere le droghe leggere, per i professionisti ci sono altre figure. Spesso le dosi vengono custodite in luoghi insospettabili: nei condomini, per esempio. Non c’è soltanto lo spaccio di strada».
Quali sono i rapporti della criminalità barese con le altre mafie?
«Il rapporto più stretto è quello con gli albanesi: attualmente sono una tra le mafie più potenti al mondo, rispettata da tutti. Siamo una Procura che lavora molto bene con gli inquirenti albanesi, con i quali abbiamo messo a segno diverse operazioni importanti grazie alle squadre investigative comuni. Il traffico di droga attraverso l’Adriatico a volte si ferma in Puglia, molto più spesso continua verso il Nord Italia e altri Paesi europei. Da non sottovalutare è anche il problema del grande flusso di denaro che passa attraverso il porto di Bari».

Avete lavorato anche in sinergia con la Polizia francese e quella spagnola in occasione dell’arresto del latitante viestano Marco Raduano.
«Non solo: dopo il suo arresto abbiamo proseguito le indagini e, anche grazie alle sue dichiarazioni, abbiamo avviato ulteriori attività — in collaborazione con le autorità giudiziaria di Cagliari e Marsiglia — su un omicidio che era stato commesso in Francia».
Favorirono evasione Raduano, tra i 14 arresti un agente penitenziario. Il boss passò 4 mesi in tenda

La mafia foggiana è ancora molto forte?
«Sì. Di recente abbiamo avviato anche un focus su Cerignola. Si tratta di una realtà forte dal punto di vista criminale perché nascosta: non ci sono omicidi da molto tempo, hanno tanti soldi frutto degli assalti ai portavalori, di cui sono professionisti riconosciuti, e fanno grandi investimenti grazie a queste disponibilità di contanti».
Passando ai problemi organizzativi e direttivi che affronta quotidianamente, cosa è migliorato rispetto all’anno scorso e cosa è peggiorato?
«Dal punto di vista infrastrutturale devo dare atto al ministero che ci ha risarcito rispetto al periodo delle tende, non possiamo lamentarci. I problemi più grossi riguardano l’inefficienza del ministero sotto il profilo informatico, che è assoluta. Questo non lo dico io ma lo ha detto il Consiglio superiore della magistratura, lo dicono gli avvocati: i programmi informatici non funzionano. Inoltre c’è un grosso problema di personale perché c’è una fuga dei giovani da questa tipologia di posto fisso, come dimostra il fatto che negli ultimi mesi abbiamo avuto assegnazioni di personale che non si è presentato. È una cosa che non si era mai vista e che accade perché i dipendenti del ministero della Giustizia hanno stipendi inferiori rispetto ad altri dipendenti pubblici. quindi chi vince diversi concorsi preferisce andare da altre parti».
La dotazione strumentale con cui lavorate è sufficiente?
«Il primo problema è che gli strumenti investigativi sono affidati ai privati, questo non va bene perché maneggiano informazioni delicatissime. Il secondo è che mancano investimenti adeguati negli strumenti che consentono le investigazioni digitali. Noi italiani siamo i più bravi investigatori al mondo, ma stiamo perdendo colpi proprio per questa mancanza di investimenti».
Che effetto hanno avuto le norme introdotte negli ultimi anni?
«Hanno reso più difficoltosa la lotta ad alcuni reati: in primis la corruzione, che è uno dei reati che più incide sulle tasche dei cittadini. Se non si combatte la corruzione non avremo alcun miglioramento nella pubblica amministrazione, però ci vogliono investimenti in tecnologie digitali e intercettazioni».
Ma le intercettazioni con i provvedimenti più recenti vengono ulteriormente limitate, fissando il limite dei 45 giorni.
«Pensare di poter scoprire uno scambio di tangenti intercettando i soggetti per 45 giorni è follia. C’è bisogno di tempo per entrare nell’indagine e anche di tempo perché accadano i fatti illeciti, non è che un corruttore paga ogni giorno una tangente. Si possono ascoltare persone indiziate per 45 giorni e non sentire nulla di utile. Non volere le intercettazioni, o limitarle, vuol dire che non si vuole combattere la corruzione. È una scelta politica che i magistrati rispetteranno, ma si deve avere il coraggio di dire ai cittadini come stanno le cose».
L’abolizione dell’abuso d’ufficio ha determinato un vuoto nelle indagini?
«Evidentemente sì. Ed è ancora più grave è stata la limitazione imposta al reato di traffico di influenze. È un insieme di cose che non vanno bene, un insieme preoccupante. Sono scelte politiche che il magistrato deve applicare, ma non si dica che queste scelte sono finalizzate a tutelare interessi pubblici: servono a ridurre la capacità di perseguire certi reati».