di Lorenzo Pisani – www.molfettalive.it
Sarà stato uno scherzetto, forse. In via Campanella, nella sede del Liberatorio Politico, s’interrogano sulla gomma da masticare infilata nella serratura. Il giorno di Halloween, quando mancavano dieci giorni alla conferenza del 10 novembre sull’inquinamento bellico nel mare di Molfetta. Si interrogano perché, nel luglio 2009, quando mancavano dieci giorni alla prima conferenza sul tema, nella cassettina della posta trovò spazio ben altro, un bossolo calibro 6,72, ossidato, quasi fosse stato in acqua.
Da due anni, il movimento civico coordinato da Matteo d’Ingeo relaziona la cittadinanza sullo stato della bonifica e sulle possibili ripercussioni sulla salute dei molfettesi.
Nel frattempo, la platea si è allargata. Ci sono altre città italiane alle prese con lo stesso problema, l’oscuro sversamento dell’arsenale bellico al termine della seconda guerra mondiale. Da parte degli angloamericani, ma anche dei nazisti. In mare, ma anche nei laghi.
La guerra è finita da un pezzo. I figli degli Alleati e dell’Asse adesso si stringono la mano. Ma alcuni segnali fanno pensare che le colpe dei loro padri possano continuare a ricadere per chissà quanto. Certo, c’è stata l’alga tossica a complicare le cose. Alga misteriosa, inizialmente collegata alle acque di zavorra dei cargo provenienti dai mari tropicali. «E allora perché alte concentrazioni di Planktothrix rubescens si ritrovano nel lago di Vico?», si chiede d’Ingeo.
Un’altra alga tossica, l’Ostreopis ovata, infesta le acque di Molfetta e dintorni. Anche qui il Coordinamento nazionale bonifica armi chimiche, cui ha aderito anche il Liberatorio, non crede alla casualità. Così ha incrociato le mappe dei siti di sversamento di ordigni bellici (a caricamento ordinario e chimico) con quello dei picchi di concentrazione. Molfetta, Ischia, Colleferro, Pesaro, il lago di Vico, il lago Maggiore: tutti accomunati dalla stessa sorte.
È partita la caccia ai documenti d’epoca. In uno di questi, pubblicato sul sito ufficiale delle operazioni di bonifica del basso Adriatico, c’è la lettera di un operaio di Bitonto datata 1960. Racconta di essere stato impiegato in una ditta che, al termine della guerra, si sbarazzò alle dipendenze del comando inglese del suo arsenale all’imboccatura del porto di Molfetta. La missiva mette in guardia l’allora sindaco Maggialetti dalla costruzione della diga Salvucci, divenuta più di quarant’anni dopo la testata d’angolo del nuovo porto commerciale.
Proprio qui d’Ingeo concentra le sue critiche. Il Comune, che lo scorso anno ha pagato una penale dacirca 8 milioni di euro per il ritardo dei lavori, conosceva la presenza dei residuati: questa la sua tesi. E per dimostrarla, oltre alla lettera, ha estratto dagli archivi di Palazzo di Città una delibera del 2004 dell’allora sindaco Tommaso Minervini in cui si affida all’ing. Enzo Balducci la responsabilità del procedimento amministrativo «per l’aggiudicazione del servizio di ricognizione e bonifica dei fondali marini». Il bando di gara del nuovo scalo sarà approvato nel giugno 2006, sotto il commissario straordinario e l’appalto integrato indetto il 17 ottobre, quando sulla poltrona di sindaco siederà Antonio Azzollini. Ma già a gennaio dello stesso 2006, la Lucatelli, ditta incaricata della bonifica, aveva chiesto la sospensione del servizio e l’intervento del nucleo dei palombari della Marina Militare, lo Sdai.
Dopo la maxi multa, i lavori sono proseguiti. Anche se circoscritti a una zona già bonificata e a una profondità limitata. La draga che si attendeva non è giunta; se n’è vista un’altra, grande lo stesso se non di più. Ha lavorato per circa un mese. Con i sedimenti aspirati si è colmato il grande bacino di fronte alla basilica della Madonna dei Martiri. “Per il futuro dei vostri figli” recita la campagna di affissioni del Comune con la foto area dei lavori.
Tutto ok, allora? No, secondo il Liberatorio, convinto che «il porto così come progettato non si farà mai»: tante ancora le bombe da ripescare (si parla orientativamente del 2016 come fine della bonifica), cui si aggiunge la profondità dei fondali, inferiore a quella che permetterebbe l’arrivo delle grosse portacontainer e le tanto anelate navi da crociera con frotte di turisti al seguito.
D’Ingeo una proposta ce l’ha: destinare i fondi alla bonifica completa del bacino del porto e di Torre Gavetone. La sede della fabbrica di sconfezionamento del dopoguerra è oggi una delle ultime spiagge libere di Molfetta. Ma sui bagnanti aleggiano cartelli di divieto. Sono stati posti all'inizio di agosto, in un’estate più calda del solito. Prima il divieto di balneazione lungo il tratto del Gavetone ricadente nel comune di Giovinazzo, poi la denuncia alla procura di Trani nei confronti di Azzollini, poi ancora la conferenza con l’annuncio del rinvenimento di quelli che potrebbero sembrare veri e propri depositi sottomarini di bombe, a pochi metri dalla spiaggia.
Il Liberatorio è stato accusato di «terrorismo psicologico» da tutti quei bagnanti che non hanno più potuto o voluto frequentare la loro amata spiaggia libera. «Avrei voluto confrontarmi con loro stasera», rilancia d’Ingeo. Elenca date, cifre, proietta foto d’epoca, cita statistiche. Chiarisce una volta per tutte che le armi ripescate sono anche a caricamento speciale, chimico, dunque pericoloso: «Ci siamo limitati a prendere visione dei report degli autori della bonifica».
Gli fa eco Giovanni Lafirenze, esperto in bonifica di terra e di mare. Le armi convenzionali dell’epoca, spiega, erano dotate di spolette al mercurio. Ci sarebbe poco da stare tranquilli. Anche a sentire l’esperienza dalla viva voce di Vitantonio Tedesco, presidente della Cooperativa di piccola pesca. Anzi, verrebbe da dire, dalla viva pelle. Quella ustionata, «che gocciolava come si stesse sciogliendo» a contatto con l’acqua di mare durante alcune battute di pesca. Vorrebbe capire con cosa sia venuto in contatto, ma attende da tre anni i referti delle analisi. Vorrebbe anche comprendere i motivi della moria di polpi dello scorso anno, e perché il pesce sta scomparendo dai nostri mari. Su tutto, vorrebbe continuare a fare il suo mestiere, ma senza pesce non c’è pesca.