Il malessere della città e … i detriti di illegalità diffusa

Due esplosioni. Una più forte dell’altra, una più vicina dell’altra all’obiettivo. Il preavviso nella notte del 1° Marzo 2018 e il messaggio, chiaro e inequivocabile, il 16 Giugno 2018.

 

Un atto intimidatorio di chiaro stampo mafioso nei confronti di un semplice cittadino, non un magistrato, non un rappresentante delle forze dell’ordine, non un giornalista, ma semplicemente un cittadino attivo che da oltre 30 anni ha fatto della “Legalità” un modello di vita, un valore etico imprescindibile.

Non è trascorso solo un anno dalla prima bomba, ma sono trascorsi 10 anni dal primo avvertimento intimidatorio, senza avere notizie degli autori e dei mandanti. Nella notte del 23 Luglio 2009, una mano anonima lasciò cadere nella buca della posta, della sede del “Movimento Liberatorio”, un proiettile, calibro 7,62, avvolto in 20cm di carta igienica su cui era scritto: “D’Ingeo il prossimo te lo metto nel culo”. Anche quel messaggio era chiaro e simbolicamente forte, non certo opera di qualche sprovveduto fruttivendolo abusivo.

Quindi, 10 anni di intimidazioni mafiose che si sono incrociate con aggressioni e minacce fisiche messe in atto da noti pregiudicati molfettesi; senza dimenticare le querele presentate nei miei confronti, per presunte diffamazioni a mezzo stampa, aventi il solo obiettivo di imbavagliarmi, zittirmi, screditarmi e isolarmi. Tutti tentativi falliti e archiviati che, in taluni casi, hanno accelerato il declino o la caduta in disgrazia di chi voleva colpirmi.

In questo clima non sono mancate le censure di certa informazione locale, che non considero tanto diverse dagli atti intimidatori. Certi “editori” e “direttori” esercitano la loro misera arte della censura sui comunicati stampa del movimento di cui mi onoro di essere portavoce e coordinatore da oltre 12 anni.

Questa è Molfetta, questo è il clima che l’avvolge, questa è l’aria che si respira, pregna di arroganza, prevaricazione, arrivismo e prepotente ignoranza. I benpensanti dicono che Molfetta, tutto sommato è una città vivibile, tranquilla e sicura rispetto a tante altre città vicine. Non sono mai stato d’accordo con questa affermazione sin dagli ’90, quando ci accorgemmo che nel sottopancia della disgregazione sociale e della microcriminalità, covavano gli assassini e le associazioni a delinquere che avevano occupato militarmente la città facendola diventare un gran bazar della droga. Da allora la città, quella laboriosa “piccola Manchester delle Puglie”, non è più la stessa, e sbagliano ancora coloro che continuano a sottovalutare i segnali di malessere sociale e criminale. I campanelli d’allarme sono stati tanti ma le istituzioni non sanno leggerli, interpretarli e gestirli.

Sembra che la comunità non voglia diventare consapevole del proprio malessere… “un malessere che, in modo spesso maldestro, vogliamo rimuovere dalla nostra coscienza e del quale facciamo fatica a prendere atto, forse perché troppo fieri del prestigio del nostro passato. Un malessere che si costruisce su impercettibili detriti di illegalità diffusa, sugli scarti umani relegati nelle periferie, sui frammenti di una sottocultura della prepotenza non sempre disorganica all’apparato ufficiale”. A distanza di 27 anni le parole di don Tonino sono maledettamente attuali… “È il discorso sulla rete sommersa della piccola criminalità che germina all’ombra di un perbenismo di facciata. Sulle connivenze col mondo della droga che ormai non risparmia nessun gonfalone. Sui rigagnoli sporchi che inquinano le falde sane di una economia costruita dalla proverbiale laboriosità dei nostri antenati, i quali hanno onorato Molfetta in tutti gli angoli del mondo…”. Quelle parole pronunciate durante l’omelia funebre per Gianni Carnicella, sono state profetiche; hanno descritto quella città che ancora oggi cova nel suo grembo quel malessere e nulla sembra essere cambiato.

Si sono arrampicati sugli specchi anche gli amministratori di turno che da oltre vent’anni non riescono a far decollare e rendere operativo quel Comitato Comunale di monitoraggio dei fenomeni delinquenziali” nato nel 1997 e mai diventato operativo. Ci sono stati timidi e fallimentari tentativi dell’amministrazione Natalicchio nel farlo rinascere e il mese scorso, su sollecitazione del Movimento Liberatorio, il Presidente Piergiovanni lo ha riconvocato, e speriamo sia la volta buona. Le finalità e gli obiettivi del Comitato sono state sempre lodevoli, sin dall’inizio, ma è mancato sempre il coraggio dei politici di turno nel guardarsi allo specchio, interrogarsi sulla città e mettersi in discussione. Eppure le finalità del Comitato Comunale sono ben delineate nell’art. 2 del suo Regolamento che così recita: “Il Comitato assiste il Consiglio Comunale e la Giunta Minicipale nell’analisi e nel monitoraggio di fenomeni delinquenziali, in particolare microdelinquenza, criminalità organizzata, narcotraffico e usura; e a Molfetta abbiamo l’imbarazzo della scelta.

Se in una città si sono bruciate centinaia di auto negli ultimi dieci anni; se bande di baby gang imperversano in città; se furti d’auto, e in appartamenti, sono diventati una routine; se l’occupazione abusiva di suolo pubblico da parte di commercianti e gestori di bar, e ristoranti, è diventata normalità; se lo spaccio di droga è ritornato, diffuso e invisibile; se l’usura e il racket non sono più tabù; se esercizi commerciali e ristoranti s’incendiano di notte; se piccoli e grandi ordigni fanno saltare in aria auto e portoni condominiali; se una bomba distrugge la porta di casa di chi denuncia e accende i riflettori su tutte queste illegalità diffuse… vuol dire che è giunto il momento di occuparsi del bene comune e interrogarsi sui malesseri della città. Se il “Comitato Comunale di monitoraggio dei fenomeni delinquenziali” scegliesse la strada giusta per affrontare i problemi della convivenza civile, sicurezza e legalità in città, si potrà dire che non è stato tempo perso.

Anche l’ultimo libro di Giovanni Impastato (fratello di Peppino) intitolato “Oltre i cento passi” e presentato a Molfetta qualche settimana fa, ci fornisce utili spunti per realizzare quell’antimafia sociale di cui si sente tanto il bisogno a Molfetta. L’antimafia sociale più difficile, impegnativa, fatta di coerenza, quella praticata e non predicata, leale e non fatta di opportunismi, trasformismi e lifting politici. L’antimafia della memoria attiva quotidiana e non celebrativa e statica.

Dobbiamo sempre sapere che ci circonda gente che pratica il malaffare, che ci avvelena, che sotterra rifiuti, che inquina il mare e non ne risponde, o che costruisce case abusive, e noi dobbiamo fare come faceva Peppino Impastato: dobbiamo uscire di casa, fare le foto, farle circolare in rete e poi fare le denunce.

Bisogna andare “oltre i cento passi”, bisogna guardare dentro l’orma di ogni passo, guardarsi intorno e capire quali sono i nostri cento passi. Basta a parlare o, solo, presentare, i libri sulle mafie degli altri, dobbiamo avere il coraggio di conoscere e parlare delle nostre mafie. Quella mafia che oggi si fa impresa, investe e reinveste il denaro guadagnato negli anni dello spaccio della droga, che investe i proventi di traffici illeciti in attività lecite. Dobbiamo cominciare a conoscere i protagonisti del malaffare degli anni ’90 che oggi, grazie a prestanome, e parenti, ripuliscono il denaro sporco creando imprese che vengono a farci le facciate dei nostri palazzi a prezzi concorrenziali; creano nuove società con altri pseudo imprenditori del mattone o addirittura si spingono fino ai servizi delle imprese di onoranze funebri. Molto spesso, inconsapevolmente, ci ritroviamo ad avere a che fare con la mafia anche nella nostra quotidianità che si interseca con il nostro lavoro, la burocrazia o, addirittura, con il nostro tempo libero, se scegliamo di andare in quel locale, bar, pizzeria o ristorante.

Se vogliamo cambiare questa città, e vogliamo combattere la nostra mafia, dobbiamo conoscerne il volto, la storia e lo spazio in cui agisce. Se non riusciamo a fare tutto questo continueremo a vagare nel vuoto se pur animati da alti e genuini ideali.

di Matteo d’Ingeo

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