Il boss comandava nel porto: “C’era benevolenza per lui”

fonte: http://bari.repubblica.it- di Cenzio di Zanni

Sarebbe diventato il nuovo astro nascente della criminalità organizzata barese. Anzi, Filippo Capriati, 47 anni, nipote dello storico boss di Bari vecchia, Tonino, che sta scontando l’ergastolo al 41 bis (il carcere duro), era qualcosa di più di una promessa della mafia. Era un «re».

Così l’aveva definito uno dei suoi delfini, Nicola De Santis, classe 1980, insospettabile autista dell’Amtab — la municipalizzata dei trasporti di Bari — prima che lo stesso giovane passasse tra le file dei collaboratori di giustizia. E che vuotasse il sacco. Era “re” fino all’alba, quando Capriati è finito in carcere insieme con altre 12 persone su disposizione del gip Francesco Pellecchia. Altre cinque persone sono fi-nite ai domiciliari nell’inchiesta della Mobile, coordinata dalla pm antimafia Isabella Ginefra, che nel complesso conta 50 indagati. Dovranno rispondere a vario titolo di associazione mafiosa, associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti aggravata dall’uso delle armi, e — fra l’altro — pure di porto e detenzione di anni (anche da guerra). Estorsioni, ai commercianti di Carassi e a quelli del mercato di Santa Sco-lastica, in particolare, e poi il traffico di droga, erano i principali affari del clan. Nuovo, del tutto autonomo rispetto a quello storico. Quello di Tonino, per intenderci. Tanto che anche per questo, almeno per i suoi, Capriati era un «re». Che, forte di un cognome diventato un marchio di fabbrica della malavita — «brand», l’ha definito il procuratore di Bari Giuseppe Volpe — aveva imposto la sua sovranità su interi pezzi del territorio.

A cominciare dal porto di Bari, che è proprio a due passi da Bari Vecchia, la storica roccaforte di famiglia. Ed è proprio con il porto e le sue società di servizi che Filippo Capriati ha dimostrato la sua capacità di «infiltrarsi» nell’economia legale, piazzando parenti e fiancheggiatori. Dal figlio Sabino, 28 anni, già vigilantes alle dipendenze della Porti Levante security srl, società in house dell’Autorità portuale che si occupa della sicurezza, al consuocero 44enne, Onofrio Spano. O, per esempio, fino al marito della cugina, il 57enne Giovanni Rossini. Tutti pregiudicati legati, o comunque vicini, alla famiglia. Tutti indagati in questa inchiesta della Dda. Tutti infiltrati come uomini del capoclan all’interno del porto. Della società cooperativa Ariete, in particolare, a cui è affidato il controllo del traffico dei mezzi che circolano nell’area portuale, finita sotto il «controllo diretto o indiretto» del clan. Il gip nelle 875 pagine della sua ordinanza, è stato chiaro: «La quasi totalità dei 44 dipendenti della cooperativa è risultata gravata da precedenti penali o di polizia, o in qualche modo legata da vincoli familiari e associativi al clan». «Ben oltre la metà». Con ruoli anche di una qualche importanza. Come quello di Vito Genchi, 34 anni, responsabile operativo della cooperativa Miete, nonché pro cugino di Filippo e «giovane rampollo» della famiglia, scrive il gip Pellecchia. 

In tutto questo, il clan avrebbe potuto contare su «una certa “benevolenza” dell’Autorità portuale, che risulterebbe preposta a vigilare sull’appalto». Un contratto da quasi quattro milioni di euro firmato il 5 maggio 2011, che però sarebbe dovuto durare per tre anni. E che, invece, è stato in piedi al-meno fino al 31 maggio 2016, per via di «una serie di proroghe chie-ste — si legge ancora nell’ordinanza del gip — dall’Autorità portuale». Tuttavia, è stata proprio la denuncia di un dirigente della stessa autorità, Pietro Bianco, a dare il là alle indagini, nel maggio 2014. Siamo al 7 ottobre 2014. Filippo Capriati è stato scarcerato il 30 aprile, dopo circa 10 anni, e si presenta a un impiegato della Porti Le-vante security in sella alla sua bici: «Dammi la lista dei turni», questa la richiesta. «In termini perentori», sottolinea il giudice. Il dipendente glissa: «Non ho le competenze». Lui: «Con il computer puoi fare tutto. Vedi tu quello che devi fare».

Da qui la relazione di servizio al dirigente e, quindi, la denuncia alla polizia portuale che dà il via all’inchiesta di squadra mobile e Dda, e che ha consentito agli inquirenti di mappare i molti interessi del clan. Soprattutto economici e soprattutto legati alla capacità di infiltra-zione del clan. Capace, capacissimo — stando alle carte dell’inchiesta — di imporre i propri fornitori di ghiaccio, buste di plastica o vassoi in alluminio ai commercianti di Carrassi. Come ai gestori delle bancarelle di sagre e mercati rionali, compresa la Sagra di San Nicola del maggio 2015. Con un dettaglio: affari e territorio sono divisi gli altri clan. Diomede e Anemolo, in particolare. Anche con l’intermediazione di altri pregiudicati. Giovanni Sedicina è uno di questi. È i15 maggio 2015 quando, al telefono con l’autista personale di Filippo Capriati, Gaetano Lorusso, i due trovano «il posto in cui ci dobbiamo mettere». Sempre in quella circostanza, inoltre, nei pressi del Molo di San Nicola il clan piazza un frigo pieno di ghiaccio: «Veniva dato, diciamo, a tutte le persone che vendevano birra o altre bevande. Chi non lo prendeva, se ne doveva andare dalla festa».

Sono le parole del pentito Nicola De Santis, nel corso di un interrogatorio davanti alla pm antimafia Isabella Ginefra. Il nuovo clan Capriati, tuttavia, non è stato solo capace di permeare l’economia. Ma di infiltrarsi pure «nel tessuto sociale della città di Bari», ricorda il gip. Un episodio riportato nelle carte la dice lunga. Ovvero la volta in cui, nell’aprile 2015, Capriati riesce a ottenere una visita urologica nel giro di qualche ora. Nessuna prenotazione al Cup, nessun ticket. È bastata una telefonata della moglie a un netturbino dell’Amiu. Da qui alla chiamata al caposala della clinica di Urologia I e alla visita da parte di uno specializzando il passo è breve. Brevissimo. Non è l’unico caso: in ballo ci sono «innumerevoli visite specialistiche». «Un segnale avvilente per l’intera comunità», dice il gip. 

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