Giustizia svenduta, Savasta: «Csm sapeva eppure chiuse la pratica»

Quella volta si era firmato Mario Rizzi. Altre volte era «Filannino» oppure Nicola D’Aloisio. Chiunque fosse, probabilmente sempre la stessa persona, era molto bene informato. Tanto che la sua lettera del 16 giugno 2016 già raccontava quello che due anni e mezzo dopo avrebbe portato Antonio Savasta dietro le sbarre. «Continua a taglieggiare imprenditori, commercianti e cittadini», scrive l’anonimo che tira fuori poi il nome di D’Introno, l’imprenditore di Corato che sarebbe diventato il principale accusatore dell’ormai ex pm: una «verifica fiscale» e Savasta che si adoperava affinché «venisse archiviata». Ricorda qualcosa?

Quella lettera anonima fa parte del fascicolo disciplinare aperto dal Csm (il precedente, guidato da Giovanni Legnini), in cui è confluita anche l’istruttoria svolta dal procuratore generale di Bari, Anna Maria Tosto, e le relazioni dei vertici della Procura di Trani. Un fascicolo pieno zeppo di esposti e di veleni, di procedimenti avviati nei confronti di Savasta dalla Procura di Lecce per la storia della masseria di Bisceglie (quella che l’ex pm comprò con un contratto scritto sulla carta intestata dell’ufficio) e delle conseguenze di altri procedimenti disciplinari aperti fin dal 2012. Le avvisaglie, insomma, c’erano tutte.
Il fascicolo disciplinare è finito tra gli atti della Procura di Firenze, che ha indagato – prima di passare la palla a Lecce – sulle trame di Savasta per favorire l’imprenditore barlettano Gigi D’Agostino, l’amico di Renzi che voleva aprire un outlet del lusso anche a Fasano. Il procedimento si è concluso, come noto, dopo la richiesta di trasferimento presentata dallo stesso Savasta.

Ma le due accuse mosse all’allora pm – che poi finira a fare il giudice a Roma, prima di venire arrestato – erano le stesse che poi lo avrebbero portato in carcere. La prima: aver chiesto un sequestro da 7,6 milioni nei confronti dei familiari di Flavio D’Introno. La seconda: aver fatto sequestrare le cartelle esattoriali emesse nei confronti dell’imprenditore per una notifica fasulla che (oggi sappiamo) era completamente inventata.

Mancavano all’epoca, certo, le confessioni di D’Introno, che ha raccontato di aver pagato (due milioni, di cui uno e mezzo all’ex gip Michele Nardi e il resto a Savasta) in cambio di quei favori giudiziari. Ma, sostanzialmente, gli indizi di qualcosa che non andava erano già più che evidenti. Partendo dall’anonimo del sedicente Rizzi, il procuratore generale Tosto, nella sua relazione, aveva infatti raccontato al procuratore generale della Cassazione dei fascicoli che Savasta aveva aperto nei confronti dei familiari di Flavio D’Introno. Non solo. Basandosi sulle relazioni dell’allora procuratore di Trani, Carlo Capristo, la Tosto evidenziava che «atti di indagine di particolare importanza» in entrambi i casi erano stati compiuti dall’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, il terzo uomo che a gennaio scorso è finito in carcere insieme a Nardi e Savasta.

La richiesta di sequestro dei beni dei familiari di Flavio D’Introno, scrive poi il procuratore generale di Bari, sarebbe avvenuta «in violazione alla legge» anche per l’assenza del «visto preventivo» del procuratore della Repubblica: il provvedimento era stato infatti vistato in assenza di Capristo dall’altro pm Luigi Scimè, cui poi Savasta ha raccontato di aver dato soldi. Ancora un altro elemento centrale dell’attuale indagine di Lecce.

La Tosto, audita dalla Prima commissione del Csm a luglio 2016, fu durissima a proposito del clima che si respirava a Trani. Ma tutto si concluse con il trasferimento di Savasta e di Scimè. Tre anni dopo, dopo l’arresto, Savasta ha confessato di aver svenduto la giustizia in cambio di denaro. E colpiscono le parole scritte dall’anonimo: «Uno che è rinviato a giudizio, uno che è condannato, come può ancora oggi svolgere le funzioni di Pm inquirente?».

fonte: MASSIMILIANO SCAGLIARINI – www.lagazzettadelmezzogiorno.it

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