
La vicenda «Casa Rossa»: 7 imputati tra i quali Vito Martiradonna. In 25 anni celebrate 65 udienze, quasi la metà saltate – fonte: Isabella Maselli – www.lagazzettadelmezzogiorno.it
Quella del processo «Casa Rossa» sul presunto narcotraffico tra la ex Jugoslavia e la Puglia negli anni Novanta è la storia di una risposta di giustizia che non arriva, perché il tempo scorre troppo veloce per stare al passo con decenni di udienze, per la precisione 25 anni, che somigliano più a un percorso a ostacoli che ai gradi di giudizio di un procedimento penale.
Ed è così che, a ventotto anni dai fatti contestati, per i sette imputati accusati di aver fatto arrivare per anni la droga, è arrivata la prescrizione. Sì, si prescrive persino il narcotraffico tra i reati con i termini più lunghi. Tra loro quel Vito Martiradonna, noto a Bari come Vitino l’Enèl, oggi 78enne, un tempo ritenuto il cassiere del clan Parisi e coinvolto anche nel processo sull’incendio del teatro Petruzzelli, poi in quello sulle scommesse illegali e tuttora alla sbarra per usura e per una presunta truffa con orologi Rolex. E poi anche Giuseppe Ranieri, fratello del pregiudicato Michele «Very Good», ucciso diversi anni fa in un agguato mafioso. Ancora, i co-imputati Antonio Scaranello, Roberto Sangiorgi, Vito Mastrandrea, Zoran Stojanovic, Giovanni De Frenza.
Per comprendere come siano trascorsi ben 28 anni dai fatti e 25 dagli arresti, basta scorrere i verbali dei processi. Decine di udienze, spesso rinviate, incappate in difetti di notifiche, mancate citazioni di testimoni o omesse traduzione di imputati detenuti, impossibilità dei giudici o dei periti a partecipare, astensione dei difensori (in questo caso con sospensione dei termini di prescrizione). In ultimo è arrivata la pandemia a metterci lo zampino.
Come detto, le accuse di importazione di tonnellate di eroina e cocaina per centinaia di milioni di lire, risalgono agli anni Novanta, per la precisione al 1995-96. In 21 furono arrestati nel 1998 dai carabinieri del Ros, nell’ambito di una indagine coordinata dall’allora pm Antimafia Giuseppe Scelsi. Il rinvio a giudizio arriva a marzo 2002. Il primo grado durerà 11 anni, da giugno 2002 a maggio 2013: 53 udienze, 26 delle quali rinvii, per notifiche sbagliate, per nullità di alcuni atti, per esigenze tabellari, per testimoni assenti, per altri contemporanei impegni dei giudici, per omessa traduzione dei detenuti, per astensione degli avvocati, per cambi di giudici nel collegio. Quasi in chiusura di processo la Procura ritrova bobine di intercettazioni che credeva smarrite e viene disposta una nuova perizia. Questo allunga ulteriormente i tempi ed è così che si arriva al 2013: sentenza a maggio con 12 condanne tra i 7 e i 15 anni di reclusione. Ad agosto il Tribunale deposita le 192 pagine delle motivazioni.
Due anni dopo il fascicolo approda in Corte di Appello per il secondo grado nei confronti di sette persone (le stesse che poi hanno fatto ricorso in Cassazione). È il 2015. La prima udienza viene fissata a gennaio 2017. Dopo dieci udienze (tre di rinvio con un anno di stop per il Covid), i giudici confermano la condanna dei sette imputati, riducendo leggermente le pene (a Martiradonna e Ranieri, condannati in primo grado a 13 anni, la Corte di Appello infligge 9 anni di reclusione, a Scaranello e Mastrandrea riduce la pena da 12 a 8 anni, al serbo Stojanovic da 15 a 11 anni, a De Frenza da 11 a 7 e infine per Sangiorgi conferma 7 anni).
Tutti impugnano in Cassazione. Due giorni fa l’udienza nella quale gli avvocati Francesco Amodio, Massimo Roberto Chiusolo, Gianmaria Daminato, Dario Vannetiello e Bruno Vigilanti hanno sottoposto ai giudici le questioni di legittimità perché le condanne venissero annullate. In serata la pronuncia della Suprema Corte: annullamento senza rinvio «perché i reati sono estinti per prescrizione». La giustizia ha perso.