Ieri conferenza stampa in procura. Numerosi gli atti acquisiti; si attende la risposta alle rogatorie. E si ritorna a parlare del recupero del peschereccio affondato il 4 novembre 1994
di Lorenzo Pisani (www.molfettalive.it/…)
L’immagine più ricorrente del Francesco Padre è una foto sbiadita. Il nome sulla poppa, il cane a sorvegliare la coperta, l’ormeggio. Un’altra immagine mostra lo stesso nome, la stessa poppa 243 metri sott’acqua, dopo la tragedia di quel 4 novembre 1994.
Ed è da qui che la procura di Trani vorrebbe ripartire. È stato chiesto ad alcune società il preventivo per un eventuale recupero dello scafo colato a picco nelle acque internazionali del mare Adriatico. Una prima stima parla di un milione di euro (con il Comune di Molfetta pronto a fornire un contributo) solo per calare sui fondali il “rov”, un robot capace di compiere riprese video, entrare nello scafo e recuperare anche i resti di Giovanni Pansini, Luigi de Giglio, Francesco Zaza, Saverio Gadaleta, i quattro marinai (il corpo di Mario de Nicolo fu l’unico a essere recuperato) che da sedici anni non trovano riposo.
L’annuncio ieri durante la conferenza stampa convocata dal procuratore capo Carlo Maria Capristo per illustrare gli ultimi sviluppi dell’inchiesta. La terza, dopo che le prime due sono state archiviate «per carenza di documentazione».
Si indaga a tutto campo, hanno precisato il sostituto procuratore Giuseppe Maralfa e il maggiore del comando provinciale dei carabinieri Iannelli. Le piste battute sono civili e militari.
Nei giorni che precedettero l’esplosione e affondamento del peschereccio, in Adriatico era in corso l’operazione militare Nato “Sharp Guard”. Erano gli anni della guerra civile jugoslava, il mare come uno scacchiere. Il pericolo era tangibile, e sarebbe affiorato prima e dopo la tragedia. Il 30 ottobre 1994 il capitano dell’imbarcazione molfettese, Giuseppe Pansini, rilascia un’intervista al giornalista Federico Fazzuoli di Telemontecarlo. Si adombrano sospetti su presunti traffici di pescato acquistato dai colleghi italiani da imbarcazioni montenegrine, che avrebbero trattenuto una tangente del 50%. La morte dei cinque molfettesi una ritorsione?
E come collocare il rapimento da parte dei serbi del pescatore laziale liberato il 12 novembre dello stesso anno? E la morte di un altro molfettese, Antonio Gigante, raggiunto nel 2 giugno 1993 da colpi di mitragliatore a bordo di un motopesca di Manfredonia? E le manovre militari?
Finora, ripete la procura, la scarsità di documenti ha costituito un ostacolo insormontabile. Adesso, complice la dissoluzione dell’ex Jugoslavia e la declassazione di alcuni atti, è stato possibile acquisire nuove informazioni.
Rogatorie sono state richieste alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e all’estero. Si attende. Solo il segreto di stato potrebbe, a questo punto, fermare nuovamente le indagini. Sarebbe l’ultimo colpo per i familiari delle vittime, rappresentati ieri da Maria Pansini e da alcuni legali. I resti dei propri cari e la loro riabilitazione, sedici anni dopo, è tutto quello che chiedono.