“Benny Petrone ammazzato per motivi abietti”: 9 esponenti dell’estrema destra nella squadraccia che uccise il 18enne

Furono identificati fin dalle prime indagini dopo l’omicidio avvenuto il 28 novembre 1977 in piazza Prefettura, ma mai indagati per la morte del 18enne militante comunista: ora la Procura della Repubblica ha sei mesi di tempo per iscrivere nel registro degli indagatifonte. Chiara Spagnolo – bari.repubblica.it

Hanno nomi e cognomi gli assassini di Benedetto Petrone. Furono identificati fin dalle prime indagini dopo l’omicidio avvenuto il 28 novembre 1977 in piazza Prefettura, ma mai indagati per la morte del 18enne militante comunista. Sono nove esponenti dell’estrema destra dell’epoca, quelli che affiancarono Giuseppe Piccolo nella «spedizione omicidiaria» e che ora la Procura della Repubblica ha sei mesi di tempo per iscrivere nel registro degli indagati.

Il giudice Angelo Salerno ha rigettato la richiesta di archiviazione formulata dai pm nello scorso novembre, ritenendo che il reato per cui si procede — l’omicidio — non possa ritenersi prescritto perché aggravato «dai motivi abietti». E che quindi non sia sufficiente l’individuazione di Piccolo (condannato e poi morto suicida nel 1984) come colui che materialmente sferrò le coltellate, ma si debba fare di tutto per identificare, ed eventualmente processare, i suoi complici.

Si riapre così, a distanza di quasi 46 anni, uno dei casi più controversi della storia di Bari. Un omicidio politico, come lo hanno definito il procuratore Roberto Rossi e la pm Grazia Errede, «risultato di una azione collettiva preordinata espressione dello squadrismo fascista». «Vi è stata una organizzazione di armi, mezzi e uomini per operare un’azione punitiva, commessa dai componenti di allora della sezione del partito del Msi nei confronti degli avversari politici», avevano scritto nella richiesta di archiviazione.

Per arrivare a questa conclusione i pm hanno esaminato innanzitutto gli atti dei due processi degli anni Ottanta: uno concluso con la condanna di Piccolo a 22 anni per l’omicidio (poi ridotti a 16 in appello, due anni prima del suicidio avvenuto in carcere nel 1984) e dei fiancheggiatori per reati minori e l’altro, sulla ricostituzione del partito fascista, terminato invece con l’assoluzione di tutti gli imputati. «Volevano marcare il territorio», ha stabilito l’inchiesta bis identificando altre nove persone oltre a Piccolo.

In quella sera d’autunno, oltre a Petrone fu ferito anche un altro esponente di sinistra, Franco Intranò, che nei mesi scorsi ha nuovamente raccontato di aver visto una decina di persone acquattate, una massa oscura che all’improvviso uscì dall’ombra: «Avevano tutti il volto coperto da passamontagna, baveri alzati, sciarponi e l’unica cosa che si vedeva era il luccichio delle mazze». Intranò fu colpito mentre era lontano da Petrone, quindi da qualcuno che non era Piccolo ma sul suo ferimento furono effettuati pochi accertamenti. Anche altri testimoni hanno parlato di un’aggressione compiuta da più persone contemporaneamente e la Procura non ha esitato a definirla «azione collettiva preordinata». Nonostante questo aveva ritenuto di non poter procedere oltre a causa del trascorrere del tempo, che avrebbe fatto prescrivere i reati. Ma sul punto il gip non è stato d’accordo. E non lo era, con motivazioni diverse, neanche l’avvocato Michele Laforgia, che ha assistito la sorella di Benny, Porzia Petrone, e l’Anpi. Il penalista aveva ritenuto che il grimaldello per far proseguire le indagini potesse essere il fatto che l’omicidio era stato aggravato dal fascismo, ovvero che era stato commesso per impedire a Petrone l’esercizio dei suoi diritti politici. Il gip, invece, ha individuato i «motivi abietti» come l’unica aggravante che può essere contestata.

«Le condotte realizzate da Piccolo e da soggetti con lui presenti sul luogo del delitto — scrive Salerno — risultano caratterizzate da crudeltà contro le persone, concretizzatasi nel colpire più volte Petrone con fendenti all’addome e al torace, esprimendo un condiviso atteggiamento riprovevole». Il giudice evidenzia «la gratuità e gravità delle condotte» e contesta i motivi abietti «a fronte dell’evidente sproporzione tra movente e delitto, non potendo il credo politico dei soggetti che hanno agito, consentire di ritenere proporzionata, in un ordinamento costituzionale improntato ai valori democratici, una condotta esorbitantemente violenta quale quella ai danni di Petrone».

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La Bari antifascista e democratica e quelle risposte attese da una vita – di Nicola Colaianni

L’omicidio efferato di Benedetto Petrone ha segnato un punto di non ritorno nella percezione della gravità dello squadrismo fascista nella società barese e nella sensibilità democratica. Fino allora fatti del genere venivano grosso modo ricondotti a una motivazione soltanto individuale o di gruppo, di odio o di vendetta, prescindendo dalla motivazione politica che poteva aver ispirato gli autori. Da allora questa motivazione è presente nelle indagini, specie quando essa veda sostanzialmente nella violenza sulle persone (e anche sulle cose: si pensi al danneggiamento aggravato delle sedi della Cgil, che un anno fa ha riguardato anche Bari) la “soluzione finale” della lotta politica. Il fascismo non è nato a tavolino — ebbe a dire il suo capo — è nato con la violenza dello squadrismo. E, come ammoniva Primo Levi, se è accaduto una volta può accadere di nuovo. Questa nuova sensibilità, diffusasi anche nelle forze dell’ordine e nella magistratura, spiega l’attenzione portata alle indagini sull’omicidio stesso di Petrone.

L’intenzione di aggredire, fino a uccidere, la vittima era soltanto dell’autore materiale o non era comune ad altri della spedizione, pur non macchiatisi materialmente de suo sangue? Di qui la richiesta di approfondimento della zona grigia emersa già in nelle indagini precedenti. C’è, tuttavia, lo scoglio della prescrizione. Sarebbe superabile solo se l’omicidio fosse aggravato, specificamente dai motivi abietti e futili. Secondo il pm non ci sono, a distanza di tanti anni bisogna rassegnarsi a metterci una pietra sopra. La difesa della persona offesa pare condividere, ma prospetta come aggravante la connessione dell’omicidio con l’attività fascista della squadra punitiva. Non, cioè, con l’attività di riorganizzazione del partito fascista, punita dalla legge Scelba del 1952, ma con quella, più in generale, di atti di violenza o di minaccia a scopo politico.

Si tratta di una legge precedente, del 1947, della cui vigenza perciò si dubita, ma che fu applicata dalla Corte d’assise di Bari (presidente Umberto Pagano, pm Nicola Magrone) proprio in relazione ai fatti del 28 novembre 1977. Con l’ordinanza di ieri il gip non ha condiviso questa impostazione — a mio avviso plausibilmente, stando alla lettera della norma penale sull’omicidio — ma neppure quella del pm. Ha seguito una via mediana, disponendo la prosecuzione delle indagini per ricostruire il contributo causale anche di coloro, da identificare, che agirono in concorso con l’autore materiale, già giudicato colpevole.

Differentemente dal pm, il gip ha ritenuto configurabile l’aggravante dei motivi abietti, data la sproporzione fra la crudeltà del delitto e il movente politico, assolutamente contrastante con un ordinamento costituzionale improntato ai valori democratici e di tutela della vita. Si può dire che alla fine tutte le parti del processo sono d’accordo nella sostanza: non è, non può essere, questo il metodo di lotta politica nello stato costituzionale di diritto. Certo, si tratta ora di verificare la tenuta dell’ipotesi formulata dal gip, considerando che la sproporzione tra movente e delitto viene comunemente (e anche di recente) interpretata dalla Cassazione come indicativa della futilità dei motivi, piuttosto che dell’abiezione. Ma questa è soltanto un’ordinanza, ovviamente sommaria, che evidenzia, tuttavia, una volta di più l’importanza del controllo del gip sulle posizioni sia della difesa sia del pm.

A dimostrazione che tra gip e pm ci può essere, e non di rado c’è, una effettiva separazione, pur la carriera essendo unica. Le cronache pullulano di levate di scudi contro la “imputazione coatta” nei confronti di un sottosegretario, ordinata dal gip di Roma al pm che aveva chiesto l’archiviazione. È la stessa norma che è stata applicata dal gip di Bari, in disaccordo con il pm, sia pure non per procedere con l’imputazione ma per continuare le indagini. Esiste da più di trent’anni e serve a evitare la discrezionalità dell’azione penale del pm. E contraddittoriamente la si critica perfino da “fonti ministeriali”, che si propongono di irrobustire l’indipendenza del gip con la separazione delle carriere. Cercate ancora, ha ora detto al pm, e alla difesa, il gip di Bari. E, indipendentemente dall’esito, il dubbio in questi quasi cinquant’anni mai venuto meno nella coscienza della sorella Porzia e, più in generale, nell’opinione democratica e antifascista barese potrà auspicabilmente essere sciolto.

 

 

 

 

 

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