Bari, le elezioni regionali inquinate dai clan: “Ci hanno dato il santino, poi 20 euro dopo il voto”

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Fonte: http://bari.repubblica.it – di SILVIA DIPINTO 

Nella piazza centrale di Ceglie del Campo, all’ombra del vecchio castello, i Di Cosola non li nomina nessuno. “Non andare da là, perché quella è zona loro“, avverte un ragazzino. “Anche se loro non ci sono più, ora che hanno cantato, e la situazione è dormiente“. Parla bene e non ha pudore a raccontare. “Ma non ti dico nemmeno il mio nome – taglia corto – non voglio problemi”. Non nasconde di aver incassato 20 euro per votare, in linea con quanto riscontrato dall‘inchiesta condotta dalla Procura antimafia di Bari. “E mica solo una volta – sorride – è ridicolo che se ne parli adesso, quando è sempre stato così. Lo fanno tutti: soldi, pacchi di pasta, buoni benzina, comitati elettorali con i buffet“.

O la promessa di un posto di lavoro, “che però nessuno mantiene mai”. Pochi passi per allontanarsi dagli occhi indiscreti degli uomini (e delle telecamere). “Togliamoci dalla piazza e ti spiego come funziona, ma niente registratori o fogli per prendere appunti: qui ci conosciamo tutti”. A mezzogiorno del day after da piazza Santa Maria del campo si sente suonare Claudio Baglioni. “La musica viene da là – indica un vecchietto – da quella che un tempo era casa loro”. Nel quartier generale dei Di Cosola ora i pezzi grossi non ci sono più. La zona rossa dove ‘loro’ gestivano gli affari del clan, è un triangolo tra la piazza con la chiesa madre, la villa del quartiere e la scuola Via di Venere, il plesso delle elementari all’occorrenza seggio elettorale.

La compravendita dei voti – secondo gli inquirenti – sarebbe avvenuta in queste stradine strette. Natale Mariella ha rastrellato qui più di 2.500 voti: l’imprenditore 48enne, candidato (non eletto) dei Popolari, è indagato, assieme al suo uomo di fiducia Armando Giove, per scambio elettorale politico-mafioso. Numerosi pentiti, tra i quali Michele Di Cosola, figlio del capoclan Antonio, hanno raccontato ai carabinieri del Nucleo investigativo di quel ‘favore’, costato decine di migliaia di euro, fatto a Mariella. Secondo quanto detto da Di Cosola, ma anche da altri tre collaboratori di giustizia provenienti dalle file della stessa organizzazione mafiosa, in cambio di 28mila euro (ne sarebbero stati chiesti 70mila) gli ‘operativi’ del clan avrebbero costretto i cittadini di Ceglie, Giovinazzo e Bitritto a votare per Mariella. A fare da intermediario, hanno aggiunto, sarebbe stato Giove. Le indagini sono ancora all’inizio e non si può nemmeno escludere che per entrambi, una volta ascoltati dai pm Carmelo Rizzo e Federico Perrone Capano, si proceda con l’archiviazione.

Nel cuore più antico del centro storico di Ceglie, dove il vecchio castello in abbandono profuma di umido e periferia, il sole a picco colora la chiesa di bianco e di giallo. Esce di corsa il prete, si ferma con fare frettoloso. Di voti imposti non ha sentito parlare. “I fedeli di certo non vengono a sfogarsi con me”, riflette padre Sabino. Nel dibattito sulle novità dalla Procura di Bari, giornali alla mano, i residenti si dividono. Tra un “non so niente” e un “così fan tutti”, in pochi sono disposti a parlare.

Lo fanno senza avarizia di dettagli e con la sola garanzia dell’anonimato, due giovanissimi della zona. Hanno poco più di vent’anni e lavoretti saltuari. “Io sì, lo ammetto, venti euro li ho presi, e ho pure recuperato altri tre amici per votare”, ripete con leggerezza uno dei due. A pagare non sarebbero stati soltanto i Di Cosola. “Tu puoi prendere soldi da quelli che stanno con loro, come da quelli che non stanno con loro”. Venti euro o anche cinquanta, pacchi famiglia, buoni benzina, cene pagate, rinfreschi gratis nei comitati elettorali. “Ma no, quali minacce, forse alzavano la voce con i forestieri – assicura – Qui non serve minacciare, la gente ha bisogno di soldi. O almeno dice di averne”.

Ad avvicinare i più giovani, altri ragazzi, addirittura minorenni. “Da me è venuto uno che conoscevo, giocavamo insieme. Mi ha dato un santino e mi ha promesso venti euro”. Pentito? “No, no. Anzi, ho recuperato altri tre amici”. Senza paura, nel tempo di una X sulla scheda. “A fiducia, non mi hanno nemmeno chiesto una prova, tipo una foto col cellulare – ricorda – Potevo anche fare di testa mia, era a loro rischio e pericolo, dicevano che l’importante era che uscissero un certo numero di voti dal seggio”.

Quasi tutti, però, avrebbero mantenuto l’impegno. “Alla fine io credo che lo sapessero, questo è un paesino e nessuno vuole rogne”. L’amico ascolta, e interrompe il silenzio per alzare il tiro. “La verità è che per noi un voto vale l’altro, quindi alla fine perché sgarrare?”. Dall’urna elettorale a piazza Vittorio Emanuele sono appena 300 metri. “Sono passato dalla villa, ho detto che avevo fatto il mio, e sono stato pagato”. Nel giardino recintato, poco distante dalla piazza, la cassa per riscuotere. “Ora ci sono le telecamere, ma non ricordo se funzionassero già allora”.

Di fronte alla chiesa madre, un anziano artigiano continua a lavorare. Occhialetti sul naso, sta vestendo le statue dei santi. “Ho letto che per i voti hanno preso 70mila euro – azzarda una stima – ma è impossibile li abbiano spesi tutti a Ceglie, visto che qui siamo quattro gatti”. Ci tiene a non generalizzare il presidente del IV Municipio, Nicola Acquaviva. “Soprattutto ora che la situazione è molto più sotto controllo, mi sento soltanto di rimarcare che si tratta di un caso isolato”.

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