Bari, i tentacoli insanguinati del clan Strisciuglio su 8 quartieri della città

Le motivazioni dell’ultima sentenza in 2.872 pagine«vortice maestrale». Viaggio nella guerra tra cosche: il dominio del gruppo camorristico: Ceglie Carbonara, Borgo Antico, San Girolamo Libertà, San Pio – Enziteto e San Paolo – fonte: Isabella Maselli – www.lagazzettadelmezzogiorno.it

BARI – «La storia criminale degli ultimi anni nella città di Bari si intreccia inevitabilmente con i diversi conflitti tra il clan Strisciuglio e le altre organizzazioni mafiose», una «guerra caratterizzata da reciproche azioni di sangue, susseguitesi in un continuo crescendo, la cui finalità era non solo di vendicare i morti, ma soprattutto di riaffermare il potere». Inizia così il racconto della gup del Tribunale di Bari Antonella Cafagna nell’ultimo (ma sicuramente non ultimo) capitolo della lotta a un pezzo, forse quello numericamente più consistente, della criminalità organizzata barese.

Nei giorni scorsi sono state depositate le motivazioni, 2.872 pagine, della sentenza «Vortice maestrale», che a gennaio scorso, in primo grado, ha stabilito la colpevolezza di 121 affiliati al gruppo mafioso che ha il suo quartier generale al Libertà.

Sono stati inflitti più di 1.300 anni di carcere complessivamente. Gli imputati sono stati condannati a pene fino ai 30 anni di reclusione per i reati di associazione mafiosa, traffico e detenzione di droga e armi, estorsioni a commercianti, lesioni e una rissa nel carcere di Bari risalente al gennaio 2016 che coinvolse 41 detenuti con lamette e taglierini, nella quale rimasero feriti anche alcuni agenti penitenziari. La giudice ha accolto quasi integralmente le richieste dell’accusa, rappresentata dal procuratore aggiunto Francesco Giannella con i sostituti della Dda Iolanda Daniela Chimienti e Marco D’Agostino.

Tra i condannati ci sono la gran parte dei boss che tra il 2015 e il 2020 hanno gestito il clan: Vito Valentino, Lorenzo Caldarola e i suoi figli Francesco e Ivan, Alessandro Ruta, Saverio Faccilongo e Giacomo Campanale.

L’indagine della squadra mobile e dei carabinieri ha ricostruito – anche grazie alle dichiarazioni di 32 collaboratori di giustizia, 18 dei quali imputati – gerarchia e attività illecite del clan, dal 2015, per il controllo del territorio nei quartieri baresi Libertà, roccaforte storica del gruppo mafioso, San Paolo, San Pio-Enziteto, Santo Spirito e San Girolamo e nei comuni di Palo del Colle e Conversano. Gli investigatori hanno documentato riti di affiliazione, conflitti con altri gruppi criminali, pestaggi per punire sodali infedeli, cattivi pagatori o risolvere questioni sentimentali. Hanno ricostruito 5 anni di vita dell’organizzazione: dalle faide interne, alla sanguinosa conquista di nuovi quartieri, alla colonizzazione di alcuni comuni della provincia (Palo del Colle, Conversano e Rutigliano), all’arruolamento di nuove e giovanissime leve, cresciute per strada, affamate di «gloria criminale», affascinate dal «brand della Luna» e decise ad imporre la legge del più forte per conquistare il controllo di interi quartieri come Libertà, San Paolo, San Pio-Enziteto, Santo Spirito e San Girolamo.

Tra gli episodi contestati ci sono un tentativo di intimidazione alla famiglia di un «pentito» della provincia, con 600 grammi di tritolo lasciati davanti alla porta di casa, aggressioni con mazze da baseball per donne contese, lettere dal carcere con ordini di uccidere, droga e telefonini fatti entrare nelle celle con fionde, droni o tramite parenti in visita.

Quando furono eseguiti gli arresti di 99 indagati, nella primavera del 2021, il procuratore Roberto Rossi e l’aggiunto Francesco Giannella definirono il clan Strisciuglio «il più feroce di Bari», capace di contare su arsenali e «killer spietati pronti a seminare il terrore».

Una lotta – dice la gup – che «non era fine a se stessa», perché «al controllo del territorio corrispondeva quello delle attività illecite», soprattutto lo spaccio di droga. La giudice giunge inoltre alla conclusione che «i quartieri che rientrano tuttora, senza dubbio, nella sfera di dominio criminale del clan Strisciuglio» (queste valutazioni si fermano al 2020) sono: Borgo Antico, il cui responsabile è Domenico Strisciuglio, detto «Mimmo La Luna», da tempo detenuto; Carbonara e Ceglie del Campo, il cui responsabile è Sigismondo Strisciuglio, detto «Gino La Luna»; San Girolamo il cui responsabile è Leonardo Campanale; Libertà, ripartito tra Lorenzo Caldarola, detto «Avvolo» e Vito Valentino «vituccio»; San Pio – Enziteto, di cui il referente è Saverio Faccilongo «benzina»; San Paolo, il cui responsabile è Alessandro Ruta, detto «russ».

«I quartieri dove il clan è attivo sono tuttora caratterizzati da un asfissiante controllo – motiva la giudice – che si manifesta attraverso le estorsioni a piccoli imprenditori e artigiani, cantieri edili, commercianti, lidi balneari, attività di ristorazione, eventi e concerti al San Nicola, slot machine».

La storia della «Luna» in otto blitz

La storia della Luna, da Bari vecchia alla conquista della città e della provincia, con quartier generale al Libertà, è riassunta nei faldoni di otto processi che raccontano la «persistente uniformità dei connotati di mafiosità che hanno contraddistinto il sodalizio dalla sua comparsa nel panorama criminale del territorio negli anni Novanta». Questo «romanzo criminale» è la premessa delle motivazioni della sentenza sull’ultimo capitolo della lunga e agghiacciante ascesa del clan Strisciuglio.

Il racconto parte dal 1996 e arriva al 2020, quasi trent’anni di lotta alla mafia che ha decapitato il clan più numeroso, più diffuso, più feroce ma anche con più «pentiti» della città. Si parte con l’operazione «Who dares wins» che racconta l’origine del gruppo criminale nato dalla disgregazione delle famiglie mafiose Di Cosola e Laraspata e dal conflitto interno al clan Capriati. E il suo progressivo affermarsi nella cosiddetta «camorra barese» dal 1996 al maggio 2000.

Il blitz «Sant’Anna», a luglio 2001, documentò le attività illecite del gruppo mafioso che in quegli anni si dedicava prevalentemente al contrabbando di sigarette al traffico di droga.

Dal 1997 al 2007 l’operazione «Eclissi» decimò le fila e i vertici del clan con 200 affiliati che finirono in cella e poi alla sbarra. Quella indagine mise in luce l’espansione territoriale realizzata dal clan. I primi anni Duemila sono stati poi documentati dall’inchiesta «Libertà», mentre con «Break Down» gli inquirenti baresi della Dda hanno raccolto le prove delle attività illecite portate ancora avanti dal clan tra il 2007 e il 2009. Arriviamo all’operazione «Agorà» del 2011 per cristallizzare ruoli e affari nelle storiche roccaforti del clan: ancora spaccio di droga, con intere piazza gestite da gruppi di giovanissimi pusher, e poi le estorsioni. Nel 2014 arriva il blitz «Coraggio» che racconta le lotte intestine all’articolazione ad Enziteto e le tensioni nel quartiere San Paolo. «Gli anni su cui focalizzava l’attenzione l’operazione Coraggio – si legge negli atti – restituivano l’immagine di una compagine scossa da continue e pericolose tensioni, cambio di affiliazioni e defezioni, che avevano minato la stabilità delle articolazioni di punta, Libertà, San Paolo ed Enziteto» ed è anche la fotografia delle «dinamiche di riposizionamento al San Paolo». Il gruppo si rivitalizza con la breve ma decisiva scarcerazione del boss Lorenzo Caldarola a ottobre 2015 e tutto quello che è seguito nei cinque anni successivi è la trama del «Vortice maestrale».

Una guerra per il potere che ha lasciato dietro di sé anche tanto sangue, con omicidi di sodali infedeli, di affiliati «traditori», di figure «ingombranti».

 

Libertà, la leadership dei Caldarola

Il «camaleontico» Valentino e il figlio del boss «impiccioso»

I boss Lorenzo Caldarola e Vito Valentino «condividono» la leadership mafiosa del quartiere Libertà. La sentenza analizza i singoli profili criminali arrivando a questa conclusione.

«L’imponente materiale probatorio – scrive la giudice – delinea plasticamente il ruolo assunto da Caldarola all’interno del clan Strisciuglio fin dal suo primo affermarsi nel quartiere Libertà, del quale ha sempre retto le sorti, garantendosi la percezione della spartenza per il tramite della moglie e mantenendo le redini del comando durante i lunghi periodi di carcerazione mediante la corrispondenza scambiata con i sodali, ovvero attraverso i colloqui con i congiunti». Accanto a lui i suoi figli, Francesco il più grande, Ivan il piccolo, entrambi con un curriculum criminale già decisamente ricco. Francesco partecipava con il padre ai summit operativi, alle azioni intimidatorie e punitive, imponendo il pizzo ai commercianti. Di Ivan la giudice evidenzia la «singolare disinvoltura criminale e spiccata litigiosità» – «ha la testa calda», «impiccioso a morire» dicevano di lui i «pentiti» – che «rendeva frequentemente necessario l’intervento di esponenti del clan per dirimere le questioni». E proprio «per il proprio pessimo carattere», è stato diverse volte «al centro di dinamiche distoniche rispetto agli interessi del sodalizio, generando conflitti e contrapposizioni e venendo tollerato dai suoi membri soltanto perché figlio del boss». E comunque le indagini avrebbero provato la sua «concreta militanza nei ranghi del sodalizio», rendendosi «protagonista di azioni estorsive, anche con modalità eclatanti e di atti predatori anche con l’uso della violenza».

E poi, accanto a quella della famiglia Caldarola, sullo stesso rione c’è Vito Valentino, figlio e fratello di «pentiti» dalla grande «intraprendenza e smania di protagonismo». «Da sempre in competizione con Caldarola» si legge negli atti «non mancò di addivenire ad accordi per perseguire il comune» obiettivo: guadagnare dai traffici illeciti, soprattutto estorsioni e narcotraffico. «Il comportamento di Valentino – dice la gup – può definirsi camaleontico e “trasversale”, essendo riuscito a rimanere attivo pur dopo la collaborazione dei genitori, a non contrapporsi mai frontalmente e in maniera irreparabile con Caldarola, a riprendere sempre immediatamente in mano la situazione anche dopo lunghi periodi di carcerazione». 

I segreti rivelati da 32 «pentiti»

Il «controllo delle carceri» è uno dei capitoli della sentenza. La giudice parla di «potere di intimidazione nei confronti della popolazione carceraria e del personale di polizia penitenziaria» ritenuto «il sistema più efficace per ribadire la supremazia criminale e l’autorità del clan proprio nei luoghi di espiazione della pena dove dovrebbe imperare la sola supremazia dello Stato». L’indagine, infatti, ha confermato che i vertici del clan dalle carceri continuano a gestire le attività illecite, a impartire ordini e direttive, «non solo tramite le ambasciate comunicate all’esterno per tramite di famigliari, ma anche in via diretta usando telefoni cellulari consegnati clandestinamente in tutte le carceri d’Italia» (anche con droni). «Il personale di vigilanza faceva finta di non vedere» ha detto un «pentito». E proprio i collaboratori di giustizia – sono 32 quelli le cui dichiarazioni vengono riassunte nel lungo e dettagliato provvedimento (18 dei quali imputati) – hanno rivelato che nel carcere di Bari c’è una ripartizione dei detenuti ,che tiene conto di rigide regole relative al «cartello» di appartenenza: nella prima e quarta c’erano gli affiliati dei clan Parisi, Di Cosola, Capriati, Diomede, Mercante e Anemolo, nella seconda e terza Strisciuglio, Telegrafo e Misceo. Il gruppo della «Luna» individuava anche un «responsabile», che era «titolare della potestà punitiva nei confronti dei reclusi che si comportavano male, ordinando pestaggi e allontanando gli indesiderati».

I collaboratori hanno rivelato anche i dettagli dei riti di affiliazione, molte delle quali avvenivano proprio in carcere, ma anche particolari sui luoghi dove il clan custodiva armi e droga, spesso in casa di parenti insospettabili, come le anziane mamme. Oltre a rivelare come venivano prese le decisioni, anche mentre i capi erano detenuti, solitamente in carceri diverse e distanti. E così le comunicazioni telefoniche venivano realizzate in call-conference tra i sodali, circostanza questa riferita da più di un collaboratore e riscontrata indirettamente mediante il ritrovamento degli apparecchi cellulari di «piccole dimensioni» a seguito delle perquisizioni nel carcere di Badu e Carros (in Sardegna, lo stesso da cui a febbraio scorso è evaso il boss di Vieste Marco Raduano, tuttora latitante).

Ma parte di questa storia è contenuta in 191 lettere sequestrate in quei mesi in carcere, le cui parole rivelavano nuove affiliazioni e propositi di vendetta. 

 

 

San Paolo, La vendetta di Alessandro Ruta

«Dove passavamo noi non cresceva l’erba Tutti avevano terrore»

«Al San Paolo eravamo diventati potenti, dove passavamo noi non cresceva l’erba, avevano tutti terrore». In questa frase, esplicita ed emblematica, pronunciata dinanzi ai pm della Dda da uno dei collaboratori di giustizia del clan Strisciuglio è contenuta l’immagina plastica del controllo che il gruppo mafioso ha esercitato, e in parte esercita ancora, sul territorio.

Il boss ritenuto il referente del clan al quartiere San Paolo è Alessandro Ruta, «nato» sotto il profilo criminale come piccolo spacciatore e poi riuscito ad emergere fino alla «affermazione di una condizione di controllo monopolistico dei traffici illeciti, frutto anche dell’operazione di “sgombero” dal territorio degli uomini del clan Misceo, dopo la rissa in carcere del gennaio 2016».

Quella rissa nel carcere di Bari costituì, infatti, il punto di snodo delle dinamiche criminali raccontate in questo processo, con la rottura dell’alleanza tra i clan Strisciuglio e Misceo. In quella occasione 41 appartenenti alle due fazioni rivali si affrontarono con lamette e taglierini.

«Una discussione infernale, la macelleria proprio» hanno raccontato i «pentiti». Nella rissa rimasero feriti anche alcuni agenti di Polizia penitenziaria, i quali poi hanno contribuito alle indagini sull’episodio e anche, come i colleghi del carcere di Lecce, al ritrovamento di decine di telefoni cellulari.

All’indomani della rissa, nella quale ebbe la peggio proprio Ruta, la rottura insanabile con il clan di Giuseppe Misceo «il fantasma» (condannato a 30 anni di reclusione) diede il via ad una serie di ritorsioni. Dopo la rissa dal carcere partì una missiva scritta da Ruta indirizzata ai suoi, con espliciti riferimenti a propositi di vendetta: «Sbranate a chiunque appartiene a loro ok? Aspetto tue notizie fra, sto come un matto, mi hanno fatto una cosa che non potrò mai dimenticare, voglio soddisfazione».

Secondo la giudice «l’assunzione del ruolo di capo» nel caso di Ruta, «costituiva la conclusione di un “intelligente” percorso criminale, che lo aveva traghettato, attraverso affiliazioni ed alleanze strategiche, verso l’affermazione di una posizione di comando. In ogni caso, essa passava attraverso il ricorso ad una metodologia di indiscutibile stampo mafioso, solo considerando l’esercizio dell’intimidazione per allontanare dal territorio chiunque non si sottoponesse alla rigida osservanza delle regole imposte». 

Enziteto e San Girolamo: Faccilongo e Campanale

La scalata al potere per il monopolio del narcotraffico

La leadership di Saverio Faccilongo «benzina» nei quartieri San Pio – Enziteto e Santo Spirito è stata «la conclusione di un conflitto sanguinario», realizzata in modo «violento e plateale, attraverso l’eliminazione fisica di un esponente storico della vecchia classe dirigente del clan». Ed è stata da quel momento «incontrastata ed esclusiva, godendo di una piena supremazia nel quartiere e del riconoscimento di tale primazia criminale da parte di tutti gli altri esponenti di vertice della consorteria a capo delle diverse articolazioni territoriali sotto l’egemonia del sodalizio». Così la sentenza descrive il controllo del clan Strisciuglio sui rioni a nord del capoluogo.

«La reggenza dell’articolazione non è stata successivamente mai più messa in discussione, mantenendo l’imputato, anche a dispetto dei periodi di carcerazione sofferti e grazie alla possibilità di veicolare le proprie direttive ai sodali attraverso scambi epistolari o l’uso clandestino di un telefono in ambiente inframurario, la posizione nevralgica e di primaria grandezza».

Per quello che è emerso dalla narrazione dei collaboratori, «le velleità dell’imputato – spiega la giudice nelle motivazioni della sentenza di condanna a 20 anni – si sarebbero spinte fino ad ipotizzare una scissione dal clan Strisciuglio, per dare vita e sostanzialmente fondare, egli stesso, un sodalizio al quale dare il proprio nome».

Nel vicino quartiere San Girolamo il referente del clan era in quel periodo Giacomo Campanale, «chiamato non soltanto ad esercitare funzioni di “supplenza” nel ruolo apicale, dopo la morte del padre e in costanza di detenzione del fratello Leonardo, ma anche, ordinariamente, ad assolvere un ruolo di direzione ed organizzazione, fungendo da collettore degli introiti delle attività illecite, sovrintendendo alla gestione dei relativi affari esattamente al pari del proprio germano e venendo incaricato di risolvere sul campo del conflitto armato le annose questioni di controllo del territorio al centro della contrapposizione con il clan Capriati, partecipando con il fratello o di intesa con altri sodali ad agguati armati di ogni sorta». Con il fratello Leonardo, «era a capo di quell’entità criminale autonoma avente le caratteristiche di una cosca familiare – secondo la gup Cafagna – che aveva creato nel quartiere San Girolamo una struttura operativa ramificata, capace di penetrare ogni settore illecito e di stabilire su di esso il pieno controllo». 

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