Da vent’anni presidia la Commissione di Palazzo Madama che si occupa di spesa. È lui l’obiettivo della nota del Quirinale Antonio Azzollini, da uomo di Stato, non commenta la lettera del capo dello Stato ai presidenti delle Camere sui decreti trasformati in contenitori per marchette d’ogni tipo. Eppure gli addetti ai lavori sanno che – fatta salva la regale indifferenza alla questione di Piero Grasso – tutto quel che ha fatto uscire dai gangheri Giorgio Napolitano è stato preparato nella premiata cucina dello chef pugliese. Eterno presidente berlusconiano della commissione Bilancio del Senato (ininterrottamente dal 2001 con la parentesi dei 18 mesi del governo Prodi), già sindaco del “Granducato” di Molfetta – come lo chiama lui – dal 2006 all’anno scorso, è uomo che durante le sessioni di bilancio gestisce il traffico dei lavori e dei favori, amministrando con eguale perizia il giuridichese dell’avvocato cassazionista, rapide sentenze in pugliese stretto e il suo classico “ma che vai cercando?“. Politico vecchio stile, se ce n’è uno, anche fisicamente, Azzollini ha un passato interessante. Militante del Pdup, un rapido passaggio nei Verdi e infine l’approdo al Pci: l’attuale senatore del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, insomma, in gioventù fa il comunista di quelli duri. Le bandiere rosse le abbandonerà nel 1992, dopo l’omicidio dell’allora sindaco di Molfetta Gianni Carnicella (fu ammazzato dall’impresario a cui aveva negato lo stadio per un concerto di Nino D’Angelo): il nostro decise di sostenere una Giunta comunale d’emergenza guidata dalla democristiana Annalisa Altomare. I compagni lo cacciarono e lui trovò modo di farsi candidare dai Popolari a sindaco nel 1994 contro la sua nemesi, il pidiessino Guglielmo Minervini. Da lì all’entrata in Forza Italia il passo è breve e nel 1996 sbarca pure in Senato, luogo che gli è caro almeno quanto il municipio della sua città, che gli è carissimo nonostante qualche dispiacere: da ottobre, per dire, si sa che è indagato insieme a qualche decina di funzionari comunali e politici per una maxi-truffa da 150 milioni di euro nella costruzione del porto di Molfetta, appaltata nel 2007 e mai terminata. Anche dai verbali dell’inchiesta esce fuori l’uomo sanguigno e un po’ scarmigliato che è: “Io a quello là qualche volta gli devo dare due cazzotti… Dammi il numero va“, sbotta quando scopre che un dirigente regionale non si lascia convincere delle sue buone ragioni. Riservatissimo coi giornalisti, a cui però concede sorrisi e un brindisi alla fine di ogni Finanziaria, pare sia molto galante, al punto che per risparmiare lavoro alle gentili signore non ne inserì nemmeno una nella sua Giunta nel 2008 finché non glielo ordinò il Tar pugliese. Tradizionalmente vicino a Giulio Tremonti e Renato Schifani, da qualche anno è in drammatica rotta di collisione con Raffaele Fitto, che tentò di trombarlo alle elezioni del 2008 mettendolo assai “basso” in lista (si salvò perché, a sorpresa, il centrodestra vinse la regione). Oggi che il Quirinale lo ha preso di punta continua a mantenere il suo riserbo: “Io mi occupo di cose serie, di cose alte risponde al Fatto quotidiano – non di polemiche giornalistiche“. Gli si fa notare che il capo dello Stato si lamenta di emendamenti sui comuni inseriti in un decreto sui comuni, quindi non proprio “eterogenei”: “Se dite questo fate bene e io concordo”. Cdf e Mpa