di MARA CHIARELLIbari.repubblica.it
"Quello venuto in luce con l'inchiesta Domino è un processo di metamorfosi della mafia nel tessuto sociale", "un vero e proprio passaggio di livello" del clan capeggiato da Savino Parisi, pronto a "infiltrarsi nel tessuto economico della città per acquisire il controllo di attività economiche, concessioni ed appalti". Lo evidenzia il gup del tribunale di Bari, Susanna De Felice, nelle 800 pagine di motivazioni alla sentenza con cui, il 19 maggio scorso ha condannato al termine di un rito abbreviato 18 persone a 125 anni di carcere e, soprattutto, ha riconosciuto quell'associazione mafiosa sulla quale avevano scommesso sin dall'inizio delle indagini i finanzieri del Gico di Bari e il pm antimafia Elisabetta Pugliese.
Nel dettagliato provvedimento appena depositato, il gup De Felice tratta ampiamente le diverse tipologie di reati commessi dall'organizzazione mafiosa, dedicando un capitolo a parte all'acquisizione del "controllo di attività economiche", controllo imperniato sulla figura di Michele Labellarte, imprenditore deceduto di morte naturale il 23 settembre 2009, ma fino all'ultimo "riciclatore" del denaro di Savino Parisi e del boss di Valenzano (ucciso ad aprile 2009) Michelangelo Stramaglia.
"Nel corso della loro carriera criminale – scrive il gup dei due boss – hanno accumulato un ingente patrimonio, in parte reinvestito in proprietà immobiliari, in parte costituito da denaro contante", un gruzzolo di banconote di circa 6 miliardi di vecchie lire, da trasformare
in euro e reinvestire proprio con l'aiuto di Labellarte. Per i giudici, l'imprenditore "ha operato con la specifica finalità di far perdere le tracce dell'origine illecita dei beni", tramite una specifica "attività di trasformazione totale o parziale".
E fino alla sua morte, una parte di quei 6 miliardi era stata trasformata, reinvestita e restituita (circa 20 mila euro). Come? Tramite una vera e propria struttura, architettata per ripulire, con la presenza di prestanome, un giro di società e conti correnti: operazioni di "finanziamento soci", "acconti su futuro acquisto di quote societarie" o "rimborso finanziamento soci". In sostanza, trasferendo il denaro con queste causali da una società all'altra, ostacolando "la tracciabilità del percorso tra la provenienza e l'arrivo" del denaro.
Quanto alla restante parte da restituire al "mammasantissima", circa tre milioni di euro, era stata spesa nell'affare della Cittadella Universitaria da realizzare a Valenzano. Insomma, per il giudice, Labellarte è stato "il catalizzatore di denaro proveniente da almeno tre canali di approvvigionamento illeciti: la mafia, la bancarotta e la frode fiscale.
E ha realizzato, attraverso i suoi prestanome, un'attività di ripulitura, gestendo promiscuamente durante il percorso i tre canali per farne perdere le tracce, così rendendo in alcuni casi impossibile l'esatta identificazione del canale illecito". Tutto ciò sarebbe stato possibile grazie ad altre figure disposte ad assumere di volta in volta il ruolo di soci, amministratori, titolari di conti correnti bancari.
Non meno remunerativa sarebbe stata per il clan Parisi – Stramaglia l'attività di usurai, concedendo "prestiti di denaro con una erogazione concorrenziale – scrive il gup – a quella degli istituti di credito". Il business si fondava, ovviamente, sulla capacità di intimidazione esercitata dai luogotenenti del boss e tipica dei componenti di un'associazione mafiosa. Così, spiega il giudice, il sodalizio si sarebbe rifatto il look, "infiltrandosi nel tessuto politico – economico", cercando e "trovando contatti nel mondo imprenditoriale" che, a sua volta, "giovandosi dell'esistenza dell'associazione ha cominciato a trarne benefici in termini di protezione e finanziamento".