di Gianni Avvantaggiato – www.ambienteambienti.com
“Vedo che voi ragazzi vi state avvelenando con i vostri stessi gas”. Era la notte del 2 dicembre 1943. Da Radio Berlino, Axis Sally, la donna americana al soldo della propaganda nazista, con voce vellutata ma affilata come una baionetta, insinuava tra le truppe alleate il suo messaggio di morte per demoralizzarne il morale.
Alle 19.15 del 2 dicembre 1943 nel porto di Bari, la Marina americana subì il più grande disastro dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour. Centocinque bombardieri Junker Ju 88 della Luftwaffe, l’aviazione tedesca, lasciarono cadere il loro carico di distruzione sul naviglio a stelle e strisce carico di munizionamento e sulle case della Città vecchia che si affacciavano sui pontili. Dai nuvoloni di fumo si sprigionò una forte puzza di aglio. L’iprite divorava le membra di equipaggi e gente comune. Tra le diciassette navi affondate, la John Harvey saltò letteralmente per aria con il suo carico di migliaia di bombe di aereo caricate con quel gas letale, «progettato per essere invisibile e che prosegue indisturbato nella missione assassina per cui è stato generato».
Quella sera di dicembre del ‘43 si consumò il più grave atto di guerra chimica di tutto il conflitto mondiale, quello che è stato definito in tutto il mondo “l’unico disastro chimico avvenuto in un Paese occidentale”. Un episodio che i governi alleati classificarono come top top secret e sul quale tutt’ora serbano un assoluto silenzio, di cui i libri di storia non parlano, ma che oggi, dopo settant’anni, fa discutere.
Perché, lo abbiamo chiesto a Gianluca Di Feo, capo redattore de L’Espresso, autore del libro “Veleni di Stato”, che ha ricostruito «la storia dei veleni creati dalla dittatura fascista e protetti dalla Repubblica democratica».
La storia delle armi chimiche italiane non è mai stata in nessuna maniera approfondita, analizzata, dice Di Feo. Gli impianti di produzione italiani di armi chimiche erano i più importanti esistenti in Europa, dopo quelli tedeschi. Il problema, continua il giornalista, è che, a guerra terminata, nessuna città italiana ha mai provveduto a una qualunque analisi mirata, a qualunque forma di monitoraggio dei danni provocati dalle armi chimiche. Su Bari il problema si conosce perché c’è stato il bombardamento e i danni che sono conseguiti sono stati talmente enormi che la vicenda non poteva essere ignorata.
«Dal dopoguerra a oggi – afferma Di Feo – non c’è mai stato un tipo di lavoro epidemiologico e di rilevamento ambientale che potesse monitorare la globalità delle verità di questi fatti».
Diversi impianti di produzione di armi chimiche hanno continuato a lavorare anche dopo la fine della guerra. Altri, come quello alle porte di Foggia, «rimasto al 1943. Cioè, dal giorno in cui i tedeschi in ritirata hanno fatto saltare i tetti, nessuno è andato più a vedere cosa c’è nel terreno. Può darsi che non ci sia nulla, può darsi che ci siano sostanze pericolose che da settant’anni vanno a contaminare tutte le coltivazioni accanto». Un’altra grossa fabbrica di armi chimiche è a Napoli; anche quella è stata distrutta dai tedeschi in ritirata ma da allora nessuno più è andato a sondare la situazione. «E lo stesso è successo sul lago di Vico, lo stesso è successo a Pieve Vergonte».
Questi impianti di produzione militare erano tanti e grandi e agivano senza nessun rispetto di nessuna regola. Come è successo a Melegnano, alle porte di Milano – spiega Di Feo – dove ci sono stati casi di intossicazione di operai. A guerra finita, fu denunciato che il fiume che scorreva accanto alla fabbrica era pieno di sostanze chimiche letali, però nessuno mai ha fatto nulla. Né all’epoca, né oggi. L’intera produzione di armi chimiche scaricate nel lago di Vico è stata svelata proprio grazie al libro-inchiesta di Di feo. «E adesso stanno ancora cercando i soldi per fare gli esami, i controlli».

Dopo il lavoro del collega de L’Espresso, si è costituito anche il Comitato nazionale bonifiche armi chimiche, che sta denunciando il caso “in tutte le stanze”. Sono necessari studi, costosi, per capire quante sostanze restano ancora oggi nei terreni e che danni possono comportare per la salute dei cittadini. Significa fare una ricerca storica negli archivi delle aziende, negli archivi delle Forze Armate italiane e straniere, per vedere quante sostanze sono state prodotte e quante ne sono state gettate in mare, calcolare con criteri moderni quali sono i rischi ancora oggi esistenti per la popolazione.
L’Espresso ha pubblicato uno studio sui rischi dell’ambiente a Napoli, per il quale gli americani hanno speso 30milioni di dollari, chiarisce Di Feo. Uno studio dell’ICRAM sulle acque della Puglia parla di pesci mutogeni. Ma nonostante l’enorme allarme che dovrebbe creare una notizia del genere, nessuno vuole indagare l’origine di questo killer invisibile. E migliaia di residuati bellici a carica chimica sono tutt’ora nascosti negli arsenali nei boschi della Tuscia, dell’Umbria, della Maremma, della provincia di Roma e di Milano e giacciono in fondo al mare di Ischia, di Manfredonia, di Foggia, di Molfetta.
E sembra ancora di sentire la voce di Axis Sally che, gelida, commenta che ci stiamo avvelenando con i nostri stessi gas: «in fondo è quello che noi italiani stiamo facendo da settant’anni».
Gianluca Di Feo è uno dei relatori della tavola rotonda organizzata dall’associazione Ambient&Ambientiil 2 dicembre prossimo: “Bari racconta: veleni di guerra di ieri e di oggi. 2 dicembre 1943 – 2 dicembre 2013″.